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Gay & Bisex

SOGNAVO LA FILARMONICA


di Membro VIP di Annunci69.it maturoamodena
20.09.2019    |    7.094    |    20 9.7
"“spogliati” disse ancora con voce rauca..."
Auftakt - Preludio - (adagio semplice con brio)

Tutto ormai accadeva. Come se il timer stesse terminando la sua corsa: ultimo anno del liceo classico, compimento della maggiore età, conclusione del corso medio per pianoforte da privatista. Quest’ultima era la cosa che più mi preoccupava. Al seguito di mio padre, avevamo lasciato Milano per una piccola città del sud. Rischiavo di mandare a puttane otto anni di studio se non riuscivamo a trovare una valida alternativa alla mia vecchia insegnante di musica. Un amico di un amico di un amico ci consigliò un ottimo maestro, ma dava lezioni a 45 Km da dove abitavo…ed io non avevo ancora la patente. “Nessun problema” per la mia teutonica genitrice “concentriamo le lezioni in due giorni la settimana, vai con la corriera. Prendiamo un piccolo hotel per la notte ed il giorno dopo torni a casa”. E come sempre si fece come lei aveva deciso. In realtà quel che trovammo fu un’affittacamere, comodo alla casa del maestro con la padrona che mi preparava anche i pasti e che mi metteva a disposizione un vecchio pianoforte. All’epoca dimostravo molto meno dei miei anni, ero magro e minuto, lunghi boccoli biondo-rossicci mi arrivavano alle spalle, sul naso punteggiato di efelidi portavo grandi occhiali dorati che nascondevano l’unica cosa bella che avevo cioè gli occhi grandi di un trasparente colore glauco.

Das Treffen - L’incontro - (andante dolce sognando – animato ma non allegro)

La mia prima lezione. Cercai di sistemarmi mentre aspettavo con tutti gli spartiti sotto il braccio che si aprisse la porta. Un cane che abbaiava, una voce che lo zittiva, dei passi smorzati che si avvicinavano e l’uscio si aprì. Ci squadrammo per qualche secondo. A diciotto anni è difficile dare un’età, sarà stato più o meno coetaneo di mio padre, forse un po’ più giovane, era più alto di me, grande senza essere grosso, il mento leggermente in avanti gli dava un’aria che incuteva rispetto. Entrammo in un’ampia sala dove troneggiava un enorme pianoforte a coda, ma tutt’intorno erano poggiati o appesi numerosi strumenti musicali. Mentre guardava i miei spartiti mi chiese di solfeggiare. Ci rimasi male…era roba da principianti, ma lo feci mentre lo studiavo. Praticava o aveva praticato sport perché si percepiva, sotto ai jeans e alla camicia, un corpo ben costruito. Mi pose sul leggio uno spartito, avviò il metronomo e mi fece segno di partire. Era una suite inglese di Bach “ma è roba del quinto anno!” mi lamentai, da parte sua un gesto imperioso e cominciai. Al termine tacque a lungo poi mi disse “vuoi davvero superare l’esame? Io non ho tempo da perdere e già gli orari di lezione che mi chiedi mi danno dei problemi, ma forse puoi farcela se lavori sodo e mi segui senza nulla obiettare”. Rosso come un peperone feci segno di si con la testa e segnai la mia condanna.
Nelle settimane a seguire mi assegnava lo studio di opere di Mendelssohn, Rubinstein, Schubert ed in più pretendeva che eseguissi giornalmente infinite serie di ardui esercizi per l'articolazione delle dita detti "spacca - mano", per rinforzare l'articolazione delle dita e a creare indipendenza tra di loro, così da ottenere la migliore capacità tecnica e meccanica. “Devi fare una sana alimentazione” mi diceva “solo un corretto stile di vita, lontano da fumo, alcool e droghe permette al pianista di dare il meglio di sé. È importante suonare in modo rilassato, concentrato e sempre attento a sentire il suono dello strumento e soprattutto le proprie emozioni. Bisogna cercare di trasmettere ciò che si sente agli altri attraverso la musica che si produce con il piano, ma prima è fondamentale una corretta impostazione della mano, delle dita, del corpo”.
Mentre eseguivo camminava dietro di me. Talvolta mi correggeva la posizione delle braccia, altre mi dava dei colpi sulla schiena perché la raddrizzassi, altre volte urlava “Doveva essere un diesis quello! Ricomincia!”
Ed io obbedivo, sudato, stanco, agitato. Di tanto in tanto mi faceva vedere lui stesso come dovevo eseguire un passaggio e per raggiungere la tastiera si addossava a me quasi abbracciandomi da dietro “Devi fare così…ricomincia!”. In quei casi ne avvertivo il profumo, il calore, il respiro, il vigore.
Talora si fermava al lato del pianoforte ad ascoltare. In tal modo i miei occhi erano all’altezza della cintura. Vedevo la linea dei fianchi, il ventre piatto, il cavallo dei pantaloni che sosteneva il bozzo del membro ben delineato.
A volte, all’arrivo m’incrociavo con un altro allievo. Un ragazzo circa di circa un paio d’anni più giovane di me. Mi sorrideva sempre mentre mi salutava con gli occhi e un giorno sentii il maestro che lo congedava chiamandolo Mattia.

Die Kenntnis - La conoscenza – (vivacissimo – animato con fuoco)

Arrivò la primavera. Eravamo prossimi alla Pasqua. Quel caldo mi sembrava inverosimile. I miei compagni di scuola andavano già al mare saltando le lezioni, mentre io mi alternavo tra studi di greco, filosofia e pianoforte.
Il primo giorno che il maestro mi ricevette con quei pantaloncini di cotone azzurri rimasi interdetto. Mi chiese scusa per l’abbigliamento, ma lui non sopportava il caldo e non gradiva l’aria condizionata. Aveva cosce atletiche e polpacci sviluppati come se giocasse al calcio, entrambi pelosi ed abbronzati. Una polo bleu gli si apriva sul petto villoso e le maniche corte scoprivano due braccia muscolose. Sembrava dovesse salire in barca da un momento all’altro.
Sistemai la partitura sul leggio, aggiustai il sedile, tirai un lungo respiro e cominciai a suonare il «Jardins sous la pluie» di Debussy. Pestavo sui tasti ma ero distratto da quelle gambe poderose che si muovevano intorno a me. “Devi farla sentire la pioggia…la mano sinistra deve muoversi alla stessa velocità della destra…cosa stai pensando oggi?….ricomincia!….veloce, più veloce, più veloce…sei distratto…ricomincia!...e falle saltare quelle mani sulla tastiera…la pioggia, la piooooooooggia….no, no così no, ri-co-min-cia!”. Ero stanco, accaldato, snervato. Mi bloccai e infilate le mani sotto gli occhiali coprii gli occhi per evitare che scaturissero le lacrime che avevo pronte. A questo punto mi aspettavo le urla dell’inferno ed invece sentii la sua mano poggiarsi sulla mia spalla e stringerla. “ok…va tutto bene…sfogati…tranquillo” singhiozzai rumorosamente. Mi fece ruotare verso di lui e mi abbracciò dicendo “tranquillo, va tutto bene, è normale un momento di debolezza”. Faceva scorrere le dita fra i miei ricci stringendomi contro di lui. La mia testa era all’altezza del suo ventre e le mie lacrime bagnavano la maglietta blue. Mi tirò su dallo sgabello, mi levò gli occhiali e mi fece poggiare la testa sulla sua spalla. Io ero rigido come un manichino, ma cominciai a calmarmi, un’energia mai provata sembrava passare da lui a me. Le sue mani mi accarezzavano la schiena mentre parole rassicuranti mi piovevano sul capo. Alzai le braccia e lo abbracciai anch’io chiedendo timidamente scusa per la mia debolezza. Ma lui mi sussurrava “Shiiii va tutto bene, adesso passa…shiiiii”. Non ricordo se fui io a sollevare il viso o lui a tirarmelo su, ma la sua bocca si ritrovò sulle mie tempie sulle quali depositò un leggerissimo bacio, poi un altro, poi un altro ancora. Sentivo il mio corpo esile rilassarsi ed abbandonarsi contro il suo solido mentre la sua bocca si spostava lieve sugli occhi bagnati, sulla punta del naso ed infine sulle mie labbra. Forse sospirai e lui allora mi strinse contro di sé. Il mio corpo aderiva perfettamente al suo e sentii contro il mio ombelico la sua erezione che premeva. Non credo fosse premeditato, accadde.
Piegò leggermente le ginocchia così i nostri membri si trovarono l’uno contro l’altro. Il mio s’irrigidì all’istante, a quei tempi mi masturbavo due, perfino tre volte al giorno, anche per scaricare tutta la tensione che accumulavo. Le sue mani si trasferirono all’altezza dei lombi e poi giù sui glutei per incollarmi a lui mentre la sua lingua s’infilava nella mia bocca. Non avevo mai baciato. Non solo un uomo, non avevo proprio mai baciato nessuno prima. Fu una strana sensazione all’inizio, ma lui non era invasivo, anzi. Istintivamente cominciai a rispondere muovendo la mia lingua e arrotolandola alla sua. “Piccolino” mi diceva a voce bassissima “il mio dolce, tenero piccolino”. Una mano migrò sotto la mia T-shirt, la sentivo scorrere dalla cervice, fra le scapole, lungo la spina dorsale, sulle costole. S’infilò nella cintura dei jeans, scostando l’elastico degli slip trovò l’attaccatura dei glutei. Rabbrividii. Mentre mi baciava mi palpava le natiche e mi stringeva sempre di più contro di lui. Con l’altra mano mi sbottonò i pantaloni e me li abbassò assieme alle mutande fino alle caviglie, me li tolsi calpestandoli dopo aver scalciato le scarpe. Mi sfilò la maglietta. Faceva scorrere le cinque dita sul mio petto smilzo, sul mio addome glabro, sui miei fianchi ossuti. Mi afferrò l’uccello duro. “Ahpperò!” disse sorridendo “a quanto pare sei cresciuto solo qui”. Mi deliziava sentirmi nudo ed inerme in sua balìa stimolato da piaceri spesso vagheggiati, ma mai provati. Mi sollevò da sotto le ascelle, mi appoggiò sulla tastiera del pianoforte sistemandosi tra le mie gambe. In un attimo si denudò lui pure. Il suo membro era il doppio del mio. Li afferrò entrambi masturbandoli contemporaneamente, baciandomi sulla bocca, sul collo, sugli occhi.
Mi prese la mano, se la portò sull’uccello, mi strinse le dita intorno conducendola assieme alla sua in un lento su e giù.
Quando mi succhiò un capezzolo gemetti per il piacere. Sentivo la sua barba sulla mia pelle mentre scendeva con la lingua intorno all’ombelico sulla linea del pube. Mi diede un paio di leccate sul glande prima di cominciare a succhiarlo, poi ingoiò tutta l’asta. Era il primo pompino che ricevevo ed era di gran lunga migliore di qualsiasi immaginazione. Non durai a lungo, venni spruzzandogli in gola. Lui lo tenne in bocca mentre si masturbava fino a quando, mugolando, non si sborrò nella mano. Ripulì entrambi con la sua maglietta, poi mi rivestì con cura, cercò di riavviarmi le ciocche ribelli, e mi accompagnò alla porta dicendomi “per oggi abbiamo finito, ci vediamo la prossima settimana”. Come uno zombi passai a ritirare la mia roba alla pensione, presi la corriera e tornai a casa. Ero felice, appagato, soddisfatto, ma preoccupato: avrebbero intuito i miei? Era visibile ch’ero diventato un culaton? E i miei compagni di scuola?
Quell’inizio di settimana volò fra interrogazioni e compiti in classe. Un giorno tornando a casa per il pranzo mia madre mi disse “ha telefonato il maestro di musica” e qui impallidii “dice che crede in te, ma hai bisogno di più esercizio. Visto che la signora dell’hotel (si ostinava a chiamarlo così) sarà via, è disposto ad ospitarti lui durante le vacanze di Pasqua”. Obiettai “ Ma se dobbiamo andare a Milano, non ti ricordi?” “Noi andiamo a Milano, tu vai lì. Gli ho già detto di si. Sei fortunato ad avere incontrato una persona così per bene” come al solito era inutile discutere con «la tedesca»: aveva deciso. E così quel giovedì partii con uno zaino più grande, un regalo da parte di mia madre per il Maestro, ed un bagaglio enorme di raccomandazioni. Vidi gli occhi di mio padre intristirsi mentre salivo sul bus e poi mentre si allontanava.

Der Wahnsinn - La Pazzia - (allegro con brio - agitato e molto appassionato)

Quando il Maestro aprì la porta il suo atteggiamento fu quello solito. Mi disse di lasciare tutto nell’ingresso e si avviò verso la sala musica. Pose lo spartito sul leggio e mi chiese di fargli vedere cosa avevo combinato in quei giorni. Nessun accenno al nostro ultimo incontro, non uno sguardo d’intesa, quasi che io avessi sognato tutto…ma avevo, forse, davvero, sognato tutto????
Lavorammo per ore, con la solita bruschezza ed esigenza. Quando scese il tramonto mi portò alla pizzeria di fianco a casa per mangiare. Mi fece parlare di me, della scuola, dei miei rapporti con i compagni, dei miei continui trasferimenti al seguito di mio padre, dei miei fratelli. Rise alla descrizione di mia madre ed una volta mi scostò un ricciolo dalla fronte. Quel gesto mi colpì. Era tenero senza essere mieloso.
Tornammo a casa. Anche allora si diresse nella stanza del pianoforte. Tremai all’idea di dover ricominciare a suonare, ma lui mise un vinile sullo stereo e si accomodò in poltrona. Le note del solo flauto del Bolero di Ravel riempirono la stanza con il tamburo che ne scandiva il ritmo. Il Maestro mi fece segno di mettermi davanti a lui e mi disse “spogliati”. S’inseriva, intanto, il suono acuto del clarinetto “mi vergogno” accennai timidamente “spogliati”. Partivano le note piene e scure del fagotto quando cominciai a togliermi una alla volta le scarpe…preceduti dall’oboe, decollavano tromba e flauto mentre lentamente mi sfilavo la maglietta. Ero ammaliato dalla carica erotica di quella musica…la sua mano si muoveva sull’uccello ancora nascosto, ma visibilmente duro. Slacciai i pantaloni mentre entravano i sax…il trombone accompagnò una gamba nuda, i fiati l’altra. Rimasi in slip mentre si levavano le viole ed i violoncelli. Scivolavo progressivamente da uno stato di percezione razionale a una sorta di sensuale invasamento. “spogliati” disse ancora con voce rauca. Mi tolsi pian piano anche quell’ultimo minuscolo indumento. M’imbarazzava il mio corpo nudo, bianco, imberbe appena illuminato dal lampione della strada, a stento tentavo di coprire con le mani il cazzo in erezione.
Quando dagli altoparlanti cominciarono a battere fragorosamente i piatti era come se io stesso ricevessi degli schiaffi e questo accresceva l'intensità emotiva della situazione. Allontanai adagio le mani mostrandomi interamente e lo sfidai guardandolo dritto negli occhi. Era come ipnotizzato, oltremodo turbato, con gli occhi allucinati, si strappò i vestiti di dosso e mentre archi e fiati s’univano al resto degli strumenti, mi sollevò in braccio trasportandomi nella sua camera. Mi depositò sul letto nel momento in cui di colpo la musica tacque.
Cercò la mia bocca. Mi baciava con passione e voracità mentre il suo corpo gravava su di me e la sua potente erezione premeva contro la mia. Quando mi offrì il suo cazzo aprii la bocca, all’inizio mi sembrava di soffocare, ma poi presi confidenza e lo accolsi nella mia gola come se l’avessi sempre fatto. Mi scopava in bocca, mi piaceva il suo sapore, mi piaceva il suo impeto, mi piaceva che ripetesse “il mio piccolino…il mio piccolino”.
Poi cominciò a leccarmi dappertutto: le dita, le braccia, le spalle, le ascelle, i capezzoli, il ventre, l’interno delle cosce, le caviglie, i piedi. Baciò ogni singola efelide della mia pelle stupendosi che fossi così liscia e delicata. Mi rivoltò sulla pancia “come un bambino!” esclamò quando, aprendomi le chiappe, scoprì un buco roseo e, per natura, privo di peli. Vi sostò a lungo leccandolo, baciandolo, penetrandolo con la punta della lingua, stirandolo con i polpastrelli, accarezzandolo, picchiettandolo. Un paio di volte gemetti di piacere e questo lo stimolava ad impegnarsi di più. Sentivo scorrere la sua asta nel taglio delle natiche, percuotermi con energia, allargare il buco ruotandoci intorno. Entrò un pochino e si fermò, uscì per poi rientrare spingendosi più dentro. Le sue braccia s’infilarono sotto alle mie ascelle, mi mise entrambe le mani sulla bocca e sprofondò con forza in me. Il mio urlo fu in tal modo soffocato ed in più ero prigioniero del suo corpo e delle sue braccia. “no, no piccolino…rilassati…tranquillo…adesso passa tutto bambino mio” diceva mentre saldo dentro di me m’impediva qualsiasi movimento. Quando capii che era inutile dimenarsi provai a distendere i muscoli. Se ne accorse e cominciò a muoversi, prima impercettibilmente, poi sempre più deciso. Ormai lo tirava quasi fuori e lo rimetteva dentro in profondità. Mi stava chiavando e lo sentivo ansimare su di me. Mi ruotò intorno al suo pistone e sollevandomi si tirò su. Io mi reggevo con le gambe intorno ai suoi fianchi aggrappato al suo collo con le braccia e lui mi sosteneva per il culo .
Ad ogni colpo sussultavo e la mia testa ondeggiava. “baciami piccolino” disse “baciami” unii la mia bocca alla sua e lo sentii ululare mentre veniva nel mio intestino. Quel calore stimolò anche il mio orgasmo e sborrai sul suo petto impiastricciandogli tutti i peli. Mi riportò sul letto con riguardo. Mi ripulì del suo seme, mi deterse la fronte, mi sistemò i capelli arruffati, mi circondò con un braccio, mi strinse a lui dicendomi “adesso riposa cucciolo…cerca di dormire”. Fu bello svegliarsi al mattino nel lettone al suono del Minuetto in Sol di Bach mentre dalla cucina arrivava il buon odore di caffè. Solo in quel momento mi accorsi che la camera comunicava con un bagno. Ero nudo, i miei slip erano rimasti in sala musica e il mio zaino nell’ingresso, oltretutto dovevo fare pipì e prepotente s’innalzava il solito alza-bandiera. Mi ci fiondai e dopo essermi liberato m’infilai nella doccia. Sotto l’acqua calda controllai il mio buco. Mi aspettavo di trovarlo largo e lacerato, ma al tatto mi sembrava normale, solo un po’ indolenzito. Sulla pelle portavo qualche segno d’irritazione, ma sembrava tutto normale. Trovai un telo, mi ci avvolsi e tornai in camera senza sapere cosa fare. Il maestro entrò subito dopo “sul tavolo c’è la colazione pronta. Fa’ in fretta che dobbiamo metterci al lavoro” poi, mentre entrava in bagno, senza guardarmi “tutto a posto?...fa male….lì…?” feci una faccina di circostanza ed annuii “molto?...perdonami, non avrei voluto…vuoi che ci mettiamo su qualcosa?”. Risposi di no ed uscii di corsa per rivestirmi senza che lui mi potesse rivedere nudo.
Quella mattina trascorse nello studio dell’op. 3 n°2 di Rachmaninoff un po' impegnativa nella parte centrale, ma tutto sommato uno dei sui pezzi più accessibili.
Era caldo anche quel giorno ed io, soffiandomi a volte sui capelli per scostarli dagli occhi, sudavo nello sforzo di fare il meglio possibile, anche perché lui mi stava vicino, accostato, aderente. Ad un certo punto mi sentii la sua mano sulla spalla e mi interruppi “continua” mi disse. Le mani su di me diventarono due, mi scorrevano sulla testa, sul collo, mi accarezzavano il petto, le braccia. Mi sollevò dallo sgabello, vi si sedette lui e mi sistemò sulle sue gambe. Mi sfilò la maglietta esortandomi a proseguire.
Mi teneva abbracciato da dietro, mi stringeva i seni, con la faccia sulla mia schiena, quasi come se mi volesse auscultare, mi dava piccoli baci, mi strofinava il mento sulla pelle. Le sue mani scesero ai pantaloni, mi tirarono giù la zip, me li abbassarono assieme agli slip, mi catturarono l’uccello, presero a segarlo piano. Io suonavo mentre lui si liberava dei vestiti. Il suo cazzo turgido (ma quanto era grande????) affiorò tra le mie cosce mentre, allargandomele, me ne accarezzava l’interno. Mi baciava le orecchie intanto che la punta umida del suo nerbo cercava l’accesso nella mia carne. Lo infilò mentre mi teneva sollevato sorreggendomi per i fianchi e lasciandomi andare con graduale lentezza progressiva. L’esperienza della sera precedente m’aveva insegnato che il dolore sarebbe passato presto e senza danni, perciò la muscolatura del mio sfintere era distesa e recettiva. Mi ritrovai così seduto sulle sue cosce completamente impalato mentre una delle sue mani si muoveva sul mio uccello e l’altra mi sosteneva per il torace. “suona, piccolino…” mi diceva “…suona, mio dolcissimo Mozart “ e cercavo di farlo al meglio possibile, volevo sentirlo dentro, più dentro ed allora cominciai a muovere il bacino ondeggiandolo e ruotandolo mentre mi spingevo con forza su di lui. Stavo vivendo due cose meravigliose: suonavo e facevo l’amore. Le tempie mi battevano forte, come un metronomo segnavano il tempo della sinfonia che stavamo componendo, l’armonia era una concatenazioni di accordi inusuali. “do maggiore… mi maggiore mi-sol diesis-si…sol settima dominante… sol-si bemolle-re” farfugliava quasi in stato di trance mentre, assecondando i miei movimenti mi stantuffava con foga. Urlai…mentre venivo, lacerato da un orgasmo proveniente più dalla testa che dall’uccello. Urlò…mentre si contraeva dentro di me in innumerevoli spasmi. Non lo avevo mai toccato, le mie mani non si erano mai allontanate dalla tastiera ed ancora la percorrevano mentre sentivo la sua erezione diminuire ed abbandonare il mio intimo assieme ai sui liquidi vischiosi.
Furono giorni in cui le mie uniche attività si limitarono a suonare e fare sesso. Mi prendeva in tutti i modi riempendomi bocca e culo ogni volta che gli saltava la voglia. Forse, in qualche circostanza, ero io stesso a provocarlo, ma ormai non riuscivo più a scindere il piacere della musica da quello della carne.
Anche quando le vacanze terminarono e riprendemmo i nostri incontri settimanali lo svolgimento era sempre uguale. Mi piaceva sedermi al pianoforte, nudo, aspettando che in lui si svegliasse la voglia. Lo penetrai anche un paio di volte, ma lui non sembrava gradire, preferiva usarmi come spugna per il suo sperma.

Epilog - Chiusa - (adagio ma non troppo - malinconico e dolente)

Superai con soddisfazione a fine giugno l’esame dell’ottavo anno di conservatorio e a luglio quello di maturità. Dovevo decidere cosa fare della mia vita futura e optai per l’università.
A settembre tornai a Milano, la mia famiglia si preparava ad un nuovo, ennesimo spostamento che io rifiutai di condividere, pertanto il compromesso fu un collegio universitario dove mi stabilii a partire da ottobre.
Quello fu per me l’anno della trasformazione. Il mio corpo decise ch’era arrivato il momento di modificarsi. M’irrobustii, aumentai la muscolatura grazie anche alla palestra che cominciai a frequentare più che altro con lo scopo di stancarmi così da non masturbarmi tutto il giorno. Sul viso comparve una barba biondo-rame che per praticità lasciai crescere; sostituii gli occhiali con delle comode lenti a contatto; imparai a domare la lunga criniera spazzolandola all’indietro; il petto si arricchì di un rado, morbido pelo biondo, così come la linea dall’ombelico al pube; presi ad indossare originali abiti etnici che compravo per due lire al mercato dell’usato e che contribuivano a darmi un’aria ascetica. Non ero bello, ma, per strada, notavo, compiaciuto, gli sguardi di uomini e donne. Qualche matura signora mi fermava paragonandomi a Robert Powell sulla scia dello zeffirelliano Gesù di Nazareth che, proprio in quel periodo, passava sul piccolo schermo. Ebbi la conferma del mio cambiamento quando un prof, alla fine di un esame, non voleva verbalizzarmi un voto perché non sembravo la stessa persona presente sulla foto del libretto.
Persino mia madre, quando mi rivide dopo qualche mese, si lasciò andare in un “schönen sohn!“ e bel figliolo detto da lei equivaleva ad un complimento grandioso.
Scrivevo al maestro due/tre volte la settimana e a volte gli telefonavo da una cabina a gettoni.
A luglio decisi di affrontare 1200 km per andare a trovarlo dicendo ai miei che andavo da un collega d’università per qualche giorno. In piedi, dietro l’uscio, ero emozionato come la prima volta. Non osavo suonare. Come dei flashback mi sovvenivano gli eventi passati. Ma la porta si aprì inaspettatamente e lo rividi. Aveva la mano attorno alle spalle di un ragazzo. Lo riconobbi, era Mattia, quello che incontravo spesso l’anno precedente, ma, contrariamente al passato, quasi non mi salutò precipitandosi giù per le scale. Entrai, vidi il pianoforte, sorrisi pensando di spogliarmi subito e mettermi a suonare. “sei cambiato Fabio” per la prima volta mi chiamò per nome e non piccolo o cucciolo o bambino “è passato un anno” risposi “quasi non ti riconoscevo…perché la barba? Sei ingrassato…no, anzi, sei cresciuto. Aspettami un attimo, vado in bagno e torno subito”. Mi aspettavo un abbraccio, una serie di baci, che mi spogliasse subito, che mi esibisse il suo cazzo indurito alla sola mia vista. Sfiorai la tastiera. Sul leggio c’era uno spartito, lo sfogliai per capire se fosse uno di quelli usati anche da me. In seconda pagina, in basso a destra, c’era disegnato un cuore con dentro la scritta « Mattia » e sotto “Il tuo piccolino, per sempre!”.
Capii.
All’improvviso capii.
Dolorosamente capii.
Non ero stato il solo, non lo sarei stato mai. Era il mio corpo infantile che aveva voluto e posseduto. Gli piacevo perché ero fisicamente immaturo pur essendo maggiorenne, poteva scoparmi quanto voleva senza correre pericoli. Era un pedofilo represso. Ecco perché mi chiamava con quei vezzeggiativi, ecco perché mi ripuliva sempre dopo ogni amplesso, ecco perché impazziva per il mio corpo minuto e glabro. Non aveva mai amato me, ma utilizzato il fanciullo che sembravo ed ora non ero più interessante.
Aprii la porta nell’istante in cui udii scrosciare lo scarico del bagno e mi avviai verso la strada. Lo sentii chiamarmi una…due…tre volte.
Poi più…
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