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I signori del treno


di LuogoCaldo
20.10.2022    |    22.913    |    21 9.4
"Un rumore metallico esplose intorno a noi..."
Il paese nel quale abitavo si trova esattamente a metà strada tra la campagna e la città.
È un paese polveroso circondato da ettari di terreno, un crocicchio di case ingiallite tagliato da una ferrovia.
Attraversarlo significa superare i binari dove, sovente, c’è un treno fermo al passaggio a livello.

Da ragazzini, dopo la scuola, ci recavamo direttamente a quell’intersezione e ci mettevamo seduti sulle montagne di terreno rosso a guardare i signori benvestiti.
Restavamo ammirati dalla frenesia delle loro conversazioni.
“Ogni giorno tardo per colpa di questa maledettissima carovana …”. Si lamentava uno.
“Dillo a me”. Rispondeva l’altro. “Se continua così mi licenzieranno”.
Quei burocrati di mezz’età già iniziavano ad incanutire dietro alla nebbia del fumo di sigaro eppure, su di noi, i completi di sartoria e le barbe impomatate sortivano un fascino misterioso.

Li guardavamo aspirare nervosi la nebbia di tabacco e, quando il capotreno fischiava il segnale della ripartenza, seguivamo con gli occhi i mozziconi ardenti che cadevano sulla terra mentre i loro proprietari facevano ritorno sui vagoni.
Dopo che il treno s’era allontanato, raccoglievamo euforici i tizzoni fumanti e ce li mettevamo tra le labbra, desiderosi di recuperare, con la bocca, l’essenza dei precedenti possessori.
“Ah … Un giorno anche io troverò lavoro nella città”. Uno di noi diceva espirando.
“Fonderemo una società. Diventeremo molto ricchi”. Rispondeva l’altro.
“Ed investiremo e moltiplicheremo i nostri averi”.
E così, sognando di scartare la vita, inebriati dal profumo che gli avventori avevano sparso nell’aria, viaggiavamo lontani dalla polvere del paese.

Dentro di me sapevo che ciò che mi riportava tutti i giorni all’intersezione era qualcosa in più che la semplice ammirazione.
Quegli uomini maturi, con gli occhi cerchiati dallo stress del pendolarismo e le grosse cosce avviluppate dentro ai calzoni di flanella, mi cagionavano un fremito delle viscere in cui avevo riconosciuto il germe della pulsione sessuale.
A volte mi infilavo i loro sigari nella tasca e quando rimanevo da solo nel bagnetto di casa tornavo ad annusarli sfregandomi con le dita il culetto.
Desideravo che quei maschi navigati sfogassero su di me le loro ragioni d’ansia e immaginavo che le mie cavità raccogliessero la piena dei loro turbamenti.

“Che ci fa Nino tutto quel tempo nel bagno?” Chiedeva la mamma allarmata.
E il papà la rimbrottava, seduto sul divano col capo di lei sulla spalla e il telecomando saldamente ancorato nella mano. “Ma lascialo in pace, non lo vedi che si sta facendo uomo?”.
“Ma che uomo e uomo …”. Sussurrava lei sporgendosi come per fare una rivelazione. “Non ha neppure sedici anni … E se si droga?”.
“Angelaaaa! Macché droga”. Rideva lui. “Vedi che tuo figlio quando sta in bagno pensa a questa …”
E tirandosela più vicino le infilava le dita sotto l’elastico del pigiama e iniziava ad accarezzarla tra le cosce.
Io restavo accovacciato dietro alla porta col cuore che mi galoppava in gola, mi tiravo giù le mutandine e mi tormentavo lo sfintere.
“Sei sicuro, Mario?”.
“Si che sono sicuro … È pur sempre figlio mio … Se solo è porco la metà …”.
Affondavo le piccole dita al ritmo dei sospiri gutturali di mio padre e chiudevo gli occhi per figurarmi che uno dei signori del treno spingesse i polpastrelli odorosi tra le mie gambe e mi baciasse con lo stesso trasporto con cui il papà baciava la mamma.

Era già autunno inoltrato quando qualcosa di inaspettato accadde nella mia vita.
Una mattina saltai la scuola e, allungando il percorso per le vie laterali perchè nessuno potesse vedermi, raggiunsi l’intersezione tra la strada e la ferrovia.
“Diamine …” Stava gridando un uomo al capostazione. “È già un quarto d’ora che siamo fermi in questo maledettissimo punto!”.
“Mi scuso a titolo della compagnia, signore”. Rispondeva l’interlocutore. “Abbiamo avuto un guasto ma cercheremo di risolverlo quanto prima”.
“Cristo santo!” Urlò un ragazzo più giovane. “C’è chi ha un lavoro da tenersi! Diglielo pure tu, Salvo, diglielo”
“Stai calmo Giusé, non è colpa sua”.
“Non è nemmeno colpa mia ma vai a spiegarlo al capo! Siamo bloccati in mezzo al nulla e non c’è neppure una cabina telefonica. Solo polvere! E manco un cesso per pisciare”. Disse mentre s’avviava verso la duna dalla quale li stavo osservando.
Mi accovacciai dietro a un cespuglio, sperando che l’uomo non mi vedesse, ma lui si accostò proprio dove io m’ ero nascosto e, con il sigaro ben piantato all’angolo della bocca, incominciò a pisciare.

La grossa proboscide sporgeva molle dalla patta dei calzoni e un liquido ambrato vi zampillava copioso.
Un forte odore d’urina riempiva l’aria.
M’era capitato in più di un’occasione di ammirare la nerchia del papà e m’ero stupito delle sue dimensioni rispetto a quelle del mio uccello, ma il signore dinanzi a me era ben più dotato di entrambi.
La pelle si accumulava abbondante sopra alla cappella viola e i coglioni gonfi pendevano pesantissimi.
Giuseppe era alto, aveva gambe molto lunghe e la barba appena cresciuta doveva ancora graffiare.
Quando cessò di mingere, l’uomo si sgrullò la mazza e cominciò ad accarezzarsela, spingendo l’ingorgo su e giù lungo il glande.
“Cristo santo!”. Disse. “Treni di merda! Si rompessero almeno dove uno può trovare un motel con qualche troia!”
Gli bastarono pochi colpi perché il bastone s’irrigidisse.
Iniziò a segarsi e quello spettacolo, misto al suono gutturale delle sue imprecazioni, mi fece eccitare straordinariamente.
Ebbi l’impulso di calarmi i calzoni, appoggiare un gomito in terra e infilarmi tre dita nel sedere stantuffandolo nervosamente.
Quando però un rivolo d’urina raggiunse la ciniglia del maglione scattai rumorosamente e svelai la mia presenza.

È quella la prima memoria che abbiamo l’uno dell’altro.
Un uomo benvestito col grosso cazzo duro tra le mani e un ragazzino piegato dietro un cespuglio con le dita nel culo.
“Cristo santo!”. Sbottò Giuseppe. “Che diavolo stai facendo pervertito? Ma cosa avete in testa voi ragazzini!?”.
La sua era chiaramente una domanda retorica, eppure ricordo che io provai a formulare una risposta.
“Mi perdoni signore, mi perdoni”. Piagnucolai costernato. “Non lo dica a mio padre la prego, non accadrà più”.
E mentre cercavo di giustificarmi feci per sollevarmi le braghe.
“Stai fermo!”. Ordinò l’uomo riprendendosi l’uccello in mano. “Rispondimi. Che stavi facendo?”
“Nulla signore”. Mentii. “Lo giuro”.
Il silenzio tra noi iniziò a vibrare di aspettative.
Lui mi rivolse uno sguardo incerto poi, finalmente, parlò.
“Ti va di toccarlo?”. Mi chiese.
Non ebbi il coraggio di rispondere.
Giuseppe s’ avvicinò e mi piantò il pesce duro a pochi centimetri dal viso.
Mi sentii sull’orlo di un precipizio e percepii nettamente la distanza tra ciò che la mia famiglia avrebbe voluto che fossi e ciò che realmente ero.
Poi, però, decisi di saltare.
Mi avventai sul cazzo e cominciai ad aspirarlo come un’idrovora.
Dio mio! Avevo trascorso così tanto tempo a fantasticare sui signori del treno e ora finalmente ne avevo uno tutto per me.
“Che buono”. Pensavo. “Che buono … Sa ancora di piscio … Mmmm!”

“Ma che minchia stai facendo, Giusè?”. Una voce baritonale mi strappò alla folle eccitazione alla quale mi ero abbandonato.
Spalancai la bocca e feci per staccarmi.
L’uomo, però, non me lo permise e, afferrandomi per i capelli, mi ricacciò tutta l’asta in gola.
“Quello che vedi … ”. Si limitò ad asserire.
Con un colpo d’occhio riconobbi l’avventore che rispondeva al nome di Salvo.
“Ma sei pazzo … Ma se ti beccano? Hai una moglie e dei figli, ma ti sei proprio bevuto il cervello?”.
I dettagli sulla vita personale del mio amante mi eccitarono.
Avevo spesso ricamato sull’identità dei signori del treno e sulle loro famiglie perfette e m’ero detto sovente che la presenza di uomini così solidi doveva effondere un senso palpabile di sicurezza dentro una casa.
Ora che però le mie congetture avevano un volto e un nome mi sentii improvvisamente intimo di quel maschio.
Iniziai a pompare il cazzo più forte, assaporando in ogni goccia dei suoi umori la sua e la mia urgenza di evadere.

“Ma stai calmo”. Esclamò Giuseppe con la voce affannata. “ Mi sto solo facendo succhiare la minchia. Vai … Vengo tra poco”.
Salvatore parve combattuto, ma non se ne andò e, anzi, si fece più vicino.
“Se ti vedono è un casino”. Sussurrò.
“Oooooh! Non mi vedono … Fammi godere sto pompino e non rompere … Ahhhh”.
“C’avrà si e no sedici anni …”.
“Forse … Ma secondo me s’è aspirato più minchie di tua moglie … Mmmmmmh”
“Ha l’età di Michele …”.
“Tuo figlio?”.
“Si …”.
Giuseppe sgranò gli occhi con malizia.
“Mmmmmh … Che porcone che sei! T’arrapa?”
L’uomo non rispose e l’altro gli offrì il pretesto per superare l’imbarazzo.
“Toccagli il culo dai”. Gli disse. “Tanto siamo bloccati qua”.
Quella proposta fendette il silenzio come una sciabolata.
“Ma è un rischio … ”. Rispose l’amico deglutendo.
“Vai … Non ti vede nessuno”.

Una mano fredda si posò sulle natiche e, mentre ancora succhiavo il pesce di Giuseppe, mi ritrovai le dita di Salvatore dentro allo sfintere.
Il maiale mi toccò la prostata e mi regalò un piacere che non ero mai riuscito a procurarmi da solo.
“Fottitelo”. Lo esortò l’amico. “Avanti non fare quella faccia che hai la patta dei calzoni che sta scoppiando”.
L’uomo arrestò il movimento, liberò le viscere e, con un rumore metallico, si abbassò la zip.
Un grosso ingombro premette violentemente contro la rosetta.
Ebbi paura.
“Sono vergine …”. Provai a dire ma Giuseppe mi serrò la testa tra le mani, mi tappò la bocca con l’uccello e cominciò a martellarmi le tonsille.
Fui sopraffatto.
L’asta che fino ad allora ero riuscito a gestire entrava e usciva con ritmo incalzante e i coglioni gonfi sbattevano duramente contro il mento.
Divenni cianotico per il bisogno di ossigeno e copiosi rivoli di saliva mi colarono ai lati delle labbra.

La pressione contro lo sfintere si fece ancora più forte e, con un solo colpo, Salvo mi affondò tutta la proboscide dentro al culo.
Avvertii un dolore che non riuscii a sostenere.
Il campo visivo divenne bianco e una vertigine di calore mi fece perdere i sensi per qualche istante.
“Chiava … Chiava”. Stava dicendo Giuseppe quando mi ripresi.
“Ah si … Che puttana … Ma dove l’hai trovata …”.
“Ne avevi proprio bisogno eh … Mmmm … C’hai la trave striata di sangue, glie l’hai rotto bestia …”.
“Cristo è un mese che sto a palle piene”.
“Azzo … Ingravidatelo allora …”.
“Mmmmh …”.

Iniziai nuovamente a sentirmi male.
I porci m’avevano costretto a quattro zampe con le ginocchia dentro alla pozza di piscio e mi riempivano bocca e culo.
M’accorsi che la polvere del suolo cominciava a sollevarsi in spirali sottili.
“Mmmmmh … C’ha il buco di velluto … Lo devi provare pure tu”.
“Innaffialo che ci passo anch’io muoviti …”.
Un rumore metallico esplose intorno a noi.
“Ma che …? Hai sentito ..?”.
“Il treno? Sta ripartendo …?”.
“Non penso, ma manca poco. Stanno provando a riattivarlo … Cazzo …! Spruzza dai …”.
“Madonna … Guarda che palo che m’è venuto …”.
“Forza …”
Salvo avviò una monta selvaggia.
Riuscivo a percepire l’ingombro dei coglioni tra le mele.
Per il dolore m’aggrappai ai quadricipiti dell’amico e vi affondai le unghie perché mi lasciasse respirare.

Un fischio acuto fendette l’aria come un colpo di pistola.
“Il treno riparte … A bordo prego! A bordo!”. Urlò il capotreno.
“Cristoooooo!”. Imprecò Giuseppe staccandosi dalla mia bocca e lasciandomi libero di urlare per la violenza dei colpi che ricevevo in culo.
“Muoviti coglione ce ne dobbiamo andare … Muoviti!”.
“Ma guarda come cazzo sto, mi violento qualche vecchia sul treno … Ma porco … Mmmmh … Manco le palle m’ha svuotato ‘sta scrofa”.
E mentre bestemmiavano li guardai scomparire nella polvere.
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