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Gay & Bisex

L'amore e la violenza - Prologo


di HegelStrikesBack
14.01.2022    |    5.833    |    7 9.4
"So perché sono qui, mi dica quello che è successo..."

Io me lo sentivo quella mattina. Lo sapevo benissimo cosa sarebbe successo anche se non sapevo ancora nulla.
Mi alzai presto, come tutte le mattine di primavera.
Amavo fare yoga sulla nostra terrazza che affacciava sull’ultimo piano di Corso dell’Indipendenza.
Fuori la città iniziava a impazzire, le macchine s’inseguivano come bisonti infuriati. Poi la colazione, un succo di frutta, una fetta di pane tostato con un velo di marmellata fatta in casa. La Betty me la serviva così, con amore, si prendeva cura di me. Mi vestii, una camicia di seta di Versace, un paio di jeans a vita alta e un paio di Superga bianche.
Mi pettinai, mi feci lo chignon. All’epoca portavo i capelli lunghissimi, biondi. Da dietro sembravo una ragazza, una di quelle stangone da pubblicità. Si ricorda il culo della pubblicità dell’intimo “Roberta”? Ecco. Dicevano che il mio culo era ancora più bello... chi? Tutti. Lui per primo.
Il citofono suonò alle 08:45 della mattina, rispose la Betty ovviamente. Feci un sospiro, era la Polizia. 
Io me lo sentivo quella mattina.
Bernardo mi aveva lasciato con un bacio la notte precedente, sulla porta del nostro superattico. Si era infilato la pistola in tasca nella giacca di pelle, mi aveva stretto forte e come tutte le volte mi aveva detto che mi amava e che ci saremmo visti l’indomani a colazione.
Salii sull’auto in borghese nella più totale discrezione. Occhiali scuri e una spruzzata di Chanel n°5. 
Mia madre lo diceva sempre: eleganti sempre, disperate mai.
Attraversammo tutta Notori nel più totale silenzio. I due poliziotti in borghese mi osservavano muti dallo specchietto retrovisore interno. Ad un semaforo rosso ci si accostò un ragazzo su di una moto da cross. Anche Bernardo ne aveva una, una Yamaha. A me facevano paura le motociclette, non le ho mai amate, ma lui voleva portarmi a tutti i costi a fare un giro al mare. “Ma col casco mi si rovineranno i capelli!” gli gridai nella speranza - vana - di farlo desistere. 
Pensai a quella felicità incosciente sulla sella rossa di quella motocicletta col vento che mi scompigliava i connotati, a quella bottiglia di champagne in riva al mare, ai suoi jeans sporchi di sabbia, a quando facemmo l’amore in pineta.
Ci rincorremmo tra quelle frasche, l’odore della salsedine si mischiava a quello degli arbusti e al suo Davidoff Cool Water.
A me piaceva scappare da lui, tanto sapevo che mi prendeva, mi prendeva e mi baciava. Mi stringeva forte e mi spogliava piano, sentivo la sua barba pizzicarmi il collo, le sue mani infiltrarsi sotto la mia t-shirt bianca fino a lambire quegli shorts di jeans che tanto lo eccitavano. Con una spinta mi buttava giù su una montagnetta di sabbia e poi lo sentivo chinarsi su di me. Gli shorts scendevano, il mio culo era completamente esposto, già semidischiuso, che di traffico lì dietro ce n’era parecchio quella volta. Sputava sul buco, s’inumidiva la cappella e con un colpo secco entrava. Non gliene fregava niente se potessi sentire dolore o urlare eccessivamente. Il rituale era quello, sempre e comunque. Mi tirava con vigore la coda, per farmi inarcare meglio la schiena. Tenevo i capelli lunghi apposta. Dio se sapeva eccitarmi quell’uomo. Nessuno mai era riuscito a farmi godere così, come lui, nemmeno le più folli depravazioni a cui mi sottoponevo dapprima per compiacerlo e poi per vizio personale, riuscivano a farmi sentire bestialmente sua proprietà come la più semplice delle scopate in riva al mare. La sua resistenza era diventata una sfida personale.
 Dovevo farlo cedere, meno durava e più era una mia vittoria personale. Mi sfiancava, non avevo nemmeno più la forza di reggermi in piedi dopo certe monte. Eppure per me non c’era nulla di più bello. Mi girava e rigirava come un cuscino nelle posizioni che più lo facevano godere e di conseguenza facevano godere me, che godevo del suo godere. Ogni sua espressione di piacere, ogni smorfia, ogni gemito, ogni sua goccia di sudore erano per me un trofeo, una medaglia al valore fornicatorio, una giustificazione alla mia presenza nella sua vita.
Poi dopo 45 minuti, un’ora? Chi può dirlo quanto durasse una sua performance? Dopo quel tempo indefinito veniva. Lo sentivo prima quando stava arrivando, giacchè i colpi si facevano più distanziati ma secchi, brutali. Sentivo il suo cazzo arrivarmi quasi in gola e poi quei fiotti caldi riempirmi le interiora e farmi ogni volta più sua, piantando dentro di me il suo seme e facendo germogliare ogni giorno di più il mio amore per lui.
Qualche volta durante l’orgasmo mi sferrava un pugno sulla schiena, mi faceva male ma non glielo facevo pesare, era una sua perdita di controllo e non una violenza gratuita. Poi ci accasciavamo sulla sabbia, abbracciati, io ancora col culo al vento che perdeva liquido seminale e ci lasciavamo andare ad una risata, una risata liberatoria. Mi passava una mano tra i capelli, mentre mi accendevo una Gauloises, mi diceva che ero l’unica cosa buona della sua vita, la più preziosa di tutte. Mi diceva che mi avrebbe portato via, magari in un paese di quelli dove avremmo potuto girare mano nella mano senza dover temere il giudizio di nessuno.
“In America!” proponevo sognante io, che in America non ci ero mai andato, ma che già ci immaginavo su una Corvette rossa sulla Sunset Boulevard mano nella mano andare incontro al tramonto più grande che avessimo mai visto.
“Ti porto dove vuoi, vita mia. Fammi finire il mio lavoro e ti porto dove vuoi.”
Un gelato al volo alla rotonda di Morea Lido e via, tornavamo verso Notori, io abbarbicato dietro sul sellino di quella motocicletta infernale, stremato e abbracciato forte all’uomo che amavo e per cui, se avessi potuto, se fosse servito, avrei dato la vita.
Quando arrivammo in commissariato, mi portarono nella sala degli interrogatori. Anche se, vista così, sembrava più una sala operatoria. Dentro mi aspettava già mio fratello Nicola, lo aveva chiamato la Betty, mentre io attraversavo la città.
Nicola era mio fratello maggiore. Un uomo bellissimo, elegante, retto. Io ero lo scapestrato della famiglia. Lui con quel sorriso da Colgate e quel fisico da fustacchione era il sogno di tutte le galline della Notori bene. Avevamo un rapporto strano, eravamo diametralmente opposti, eppure, a modo nostro ci capivamo.
“Ivan, ricordati che non sei obbligato a rispondere. Non sei un indagato ma solo una persona informata sui fatti.”
Il PM Letojanni entrò nella stanza pochi minuti dopo. Lo squadrai dalla testa ai piedi, al punto da metterlo - involontariamente - in soggezione. In un altro contesto sarebbe stato uno di quegli uomini che mi sarei divertito a sedurre ma qui, di divertente, non c’era proprio un bel cazzo.
“Ivan Danese? Buongiorno, sono Raffaele Letojanni, PM di Notori. Devo farle qualche domanda.”

“Dottor Letojanni, non sono una ragazzina quindi non giriamoci intorno. So perché sono qui, mi dica quello che è successo.” — risposi con una freddezza mai avuta prima.
Avevo avuto tempo per prepararmi a quel momento, Dio solo sa quanto. 
Quante notti ho passato da solo a casa nostra, sapendolo fuori, ad aspettare un carico di cocaina o a piazzarlo in giro. Quante preghiere ho affidato a Dio sperando di vederlo tornare.
Quante lacrime ho versato ogni volta che ho potuto riabbracciarlo. Fino a stamattina.
“Signor Danese, mi spiace comunicarle che Bernardo Iannelli è stato assassinato questa notte, davanti alla discoteca Nautilus, a Morea Lido.”
Il Nautilus. Cazzo. Gliel’avrò detto mille volte di non andare a pestare i piedi ai Pozzato.
“Come.”
“La sua Golf è stata ritrovata nel parcheggio del locale crivellata di colpi di mitragliatrice, all’interno giaceva il corpo senza vita di Iannelli. Lei e Iannelli eravate… ehm… co-abitanti, giusto?”
“Letojanni, si risparmi questi moralismi da democristiano, lo sapevano tutti che io e Bernardo eravamo compagni di vita. Si figuri se in una città come Notori poteva non girare il succoso gossip del fidanzamento tra uno dei boss della malavita locale e il figlio ricchione di una delle famiglie più in vista della città…”
Letojanni davanti a tutta quell’ostentata sicurezza e a quella freddezza glaciale si schernì quasi. Pensò a sua moglie, Francesca, non sarebbe mai riuscito a rimanere così indifferente davanti a quella notizia, a parti inverse.
“Lo so cosa sta pensando Letojanni, lei pensa che non me ne freghi nulla di quello che è successo. Vero? E invece no, io stamattina sono morto con lui. Ma ho avuto tempo per prepararmi a questo momento. Ogni notte, ogni notte che lui è uscito di casa per un carico o per una nuova piazza di spaccio io ho pensato di ritrovarmi in quest’incubo. Lo ho visualizzato talmente bene nel tempo che adesso mi sento in un deja-vù.”
“Ed è meglio o peggio di come lo avesse immaginato?”
“Mi sento sotto anestetico anche se non ho preso nulla, non so dirle.”
“Dovrà raccontarmi molte cose, lo sa vero?”
“Canterò come un usignolo. Bernardo non era un santo, certo, ma era a modo suo un gentiluomo. Non meritava di essere ammazzato come un cane. Non voglio vendetta. Voglio giustizia. E peggio di una donna incazzata, Letojanni, si ricordi che c’è solo un frocio incazzato.”

“Bene, partiamo dall’inizio allora. Quando vi siete conosciuti lei e Bernardo Iannelli?”
“Era il febbraio 1986, la sera di carnevale…”

[Continua]

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