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La promessa


di reveur
27.11.2010    |    43.537    |    2 8.5
"Rotti gli indugi, quindi, la destra della zia incalzava febbrile il mio pene, l’altra, nascosta dalla gonna, martoriava la sua vagina, le labbra in..."
La promessa…

Zia Veronica e zio Marco, fratello di mia madre, hanno vissuto per alcuni anni nello stesso paesino in cui abitavamo io e la mia famiglia, nell’entroterra ligure. Zio Marco lavorava sulle navi commerciali come marinaio per cui spesso si assentava per mesi interi e la zia rimaneva quasi sempre sola, tranne quando andava a stare con i suoi sulla costa.
Sin dalla prima volta che vidi zia Veronica, nonostante la mia giovane età, provai un tuffo al cuore e subii immediatamente il suo fascino. Man mano che diventavo più grande, aumentava la mia inquietudine, le emozioni che mi dava si facevano più intense e sempre più coinvolgevano sia la mente che il fisico. Da una certa età in poi ogni qual volta fantasticavo su di lei mi ritrovavo con il mio giovane ed acerbo attributo in piena erezione e smanioso di essere messo a tacere.
Quando la conobbi zia Veronica aveva circa 25 anni, era magra e slanciata, tipo coscia lunga, più alta di zio, con lunghi capelli crespi e neri, le labbra accentuate che si dispiegano in un sorriso abbagliante e la carnagione pallida che faceva un bel contrasto con i capelli scuri. Tutto sommato non era una grande bellezza, ma aveva sicuramente un fascino irresistibile e una femminilità prorompente.
Andavo quasi giorno a casa sua e lei gradiva molto la mia compagnia, ero il suo nipotino prediletto. Col tempo si era stabilita una comunione molto forte tra di noi, un’intimità e complicità fuori dell’ordinario, ma che sembrava dissolversi quando tornava zio o erano presenti altri parenti. In quei casi la zia si chiudeva a riccio ed assumeva nei miei confronti un comportamento piuttosto formale. Ciò mi dispiaceva molto e mi gettava in un cupo sconforto, perché mi sentivo privato di qualcosa di cui non sapevo più fare a meno. Ero geloso di zio che, con la sua presenza, finiva per monopolizzare l’attenzione e/o l’interesse di zia, ma non gli portavo rancore perché ero molto legato a lui e gli volevo bene. Nel mio giovane cuore, quindi, si alternavano sentimenti contrastanti.
Quando eravamo soli, la zia era sempre allegra e solare, amava scherzare e riempirmi di mille attenzioni, di moine, di tenere carezze; mi faceva sedere sulle sue ginocchia, mi stringeva forte fra le sue braccia, mi passava le dita della mano sulla fronte, sul naso, sulle guancia, sul mento e, non senza turbamento, sulle labbra; poi mi baciava sulle guance dicendomi: “Tu sei il mio amore segreto! Però non dirlo mai a nessuno!”
Ero soggiogato dal suo fascino, ero pazzo di lei, il suo profumo mi ubriacava, le sue mani mi scuotevano tutto, le sue braccia , il suo petto, erano il mio rifugio preferito; le sue labbra morbide e umide che si stampavano sulle mie guance, sulla mia fronte, avevano la consistenza, il profumo ed il sapore di un frutto proibito. Standole seduto in grembo sentivo il contatto delle sue cosce contro le mie natiche, il suo petto morbido che si schiacciava contro di me, le sue braccia avvolgenti che mi tenevano stretto stretto, mentre l’alito fresco che fuoriusciva leggero dalle sue labbra lambiva il mio viso accaldato. Vivevo in un sogno, in un'altra dimensione, vivevo inconsciamente il mio primo grande amore… quello che si ricorda per tutta la vita.
Una volta la settimana la zia mi faceva lo shampoo: mi metteva a testa in giù nel lavandino e passava le sue dita nei miei capelli, massaggiandomi il cuoio capelluto prima con tenerezza, poi con voluttà crescente, mentre il suo respiro di faceva affannoso e il suo corpo si abbandonava languidamente contro mio, facendomi sentire la morbidezza delle sue forme e trasmettendomi il fuoco che aveva dentro.
Era tutto così dolce, così intimo, così appassionato. Non sapevo classificare in alcun modo il nostro reciproco sentire, i nostri languori, i turbamenti, l’eccitazione palpabile che prendeva entrambi. Quell’atmosfera intrigante, voluttuosa e fortemente erotica, ci regalava delle forti emozioni, degli stimoli fisici che si dilagavano nei nostri corpi. Tutto ciò per me era nuovo, non lo avevo mai vissuto con nessuna delle mie sorelle o con le cugine, né, posso dirlo con franchezza, zia Vera aveva la stessa intimità, gli stessi comportamenti con altri nipoti. Di una cosa ero certo, era il nostro segreto, dolce e romantico, era una cosa bella ed era solo nostra, da non condividere con nessuno, e ciò rendeva ancora più intimo e saldo il nostro rapporto.
A casa di zia era stata installata una bella vasca da bagno, mentre a casa nostra c’era si è no un lavandino in cui potersi lavare il viso. Di tanto in tanto la zia la riempiva d’acqua calda, la profumava con sali da bagno, poi, dopo avermi aiutato a spogliare, mi faceva entrare dentro. Scivolavo fino al mento nell’acqua calda e profumata, tra sbuffi di schiuma soffice, sopraffatto dal benessere, dalle emozioni, dall’eccitazione mentre la zia, inginocchiata sul tappetino davanti la vasca, con occhi sognanti, cominciava a lavarmi. Il gioco iniziava immancabilmente con le sue dita che si intrecciavano nei miei capelli, per poi scendere sulle guance, sulla labbra che lei forzava delicatamente per mettermele in bocca, conducendo così un gioco a me sconosciuto, ma che a lei ne richiamava ben altri.
La zia immergeva la sua mano nell’acqua alla scoperta dei tesori celati dalla schiuma soffice, percorreva il petto, saggiava la consistenza dei due piccoli emisferi mammari, titillava i capezzoli, percorreva la mia pancia, agganciava i miei fianchi, si intrufolava in ogni ansa del mio corpo, palpava compulsamene le mie natiche, indugiava con delicatezza sul piccolo pertugio posteriore; poi scendeva lungo le cosce, i polpacci, le caviglie, i piedi per poi risalire impaziente verso le cosce che, istintivamente, si aprivano per darle maggior agio di conquistare ogni piccola parte del mio corpo.
Il gioco si faceva più eccitante, le carezze più ardite, i nostri respiri diventavano sempre più affannosi. Imperterrite le sue splendide dita si soffermavano a lungo pube, saggiavano la mia acerba e novella peluria; sfioravano ripetutamente, anche se con apparente casualità, i testicoli, il pene già in erezione che fremeva ad ogni tocco.
La zia poi con il viso in fiamme lasciava scivolare la sua mano sinistra al di sotto della sua gonna strappandole brividi profondi: la passione montava a dismisura, i sensi impazzivano risucchiandoci in un vortice senza fine. Rotti gli indugi, quindi, la destra della zia incalzava febbrile il mio pene, l’altra, nascosta dalla gonna, martoriava la sua vagina, le labbra in attesa spasmodica, il clitoride turgido e smanioso, con movimenti sempre più convulsi, fino all’esplosione di entrambi sottolineata da gorgoglii sordi e prolungati.
Il nostro era un gioco estenuante, pazzesco che ci lasciava sfiniti; un gioco a cui zia, evidentemente, non voleva dare una svolta diversa, condizionata com’era dall’essere sposata e dalla mia giovane età. Tantomeno io osavo prendere l’iniziativa, per paura di andare al di là di quello che lei considerava il suo limite. Se avessi avuto qualche anno in più, se avessi avuto l’intraprendenza di un adulto, forse avrei avuto la determinazione necessaria a forzare gli eventi.
Nessuno dei due però ebbe il coraggio di modificare quello stato di cose.
Ci fu un periodo in cui zia si trasferì a casa dei suoi, sulla costa, per accudire la mamma ammalata. Fu per me un periodo buio, pieno di malinconia, di rimuginamenti, di rievocazioni assillanti dei nostri momenti più intimi ed esaltanti, con conseguente intensa e solitaria attività masturbatoria che vedeva lei e solo lei al centro del mio desiderio. Mi sono sempre chiesto se anche lei ricorreva all’autoerotismo e se io rientravo tra gli oggetti del suo recondito desiderio.
“Devi andare da zia Veronica, al mare, per consegnarli questi documenti” mi disse un giorno mia madre. Quelle parole risuonarono come magiche alle mie orecchie. La prospettiva di rivedere la zia, di lasciare per qualche giorno il mio paesino montano per andare sulla costa inondò il mio cuore di felicità ed entusiasmo; mi allettava anche tantissimo il ritrovare l’allegra moltitudine dei suoi parenti ed in particolare i vecchi genitori a cui ero molto affezionato. Ero di casa in quell’ameno borgo di pescatori e marinai dove trascorrevo uno o due mesi all’anno per le vacanze estive.
Il giorno dopo, imbacuccato con cappotto, berretto, guanti e sciarpa, presi il bus per raggiungere la costa, dove appena arrivai, anche se in pieno inverno, fui costretto a liberarmi di gran parte degli accessori invernali, dato che la temperatura sulla cosata era decisamente più alta.
La casa dei genitori di zia era piuttosto piccola: una camera da letto per i due anziani genitori, un’altra camera da letto, più piccola, dove dormiva la zia Veronica e zio Mauro quand’era sulla terra ferma, una piccola cucina ed il bagno. Poiché lo zio Marco era in viaggio io e zia, per forza di cose, dovemmo condividere il grande lettone che campeggiava nella stanza.
Ad una certa ora della sera io andai a letto, aspettando che zia mi raggiungesse, per ritrovarmi con lei a tu per tu, per riprendere il gioco di coccole reciproche che amavamo tanto. Ben presto però sprofondai nel sonno e non mi resi conto quando lei venne a coricarsi. Fu una notte magica, avvolta in una densa cortina di nubi che non lasciarono intravedere e presagire nulla con certezza; l’atmosfera era piena di pathos, di sensazioni sfumate, di figure eteree ed inafferrabili che fluttuavano intorno al grande lettone, di estasi provocata da una moltitudini di mani che percorrevano il mio corpo, di labbra calde e morbidissime che si stampavano sulle mie, che coprivano il mio viso, che percorrevano tutto intero il mio corpo, fino a soffermarsi tra le miei cosce…..
Ho ancora oggi ho il chiaro il ricordo di quelle labbra meravigliose, di quel contatto dolce ed umido; ma non so definire con certezza cosa sia successo, quanto il mio dormiveglia era profondo, quanto il caleidoscopio delle sensazioni provate fosse frutto della realtà o delle suggestioni del sonno.

L’estate successiva, quando mi trasferii sulla costa per le vacanze estive, trovai a casa dei genitori di zia anche due nipoti, due ragazze di 17 e 21 anni che dalla Lombardia, dove vivevano normalmente, vennero a fare le vacanze in Liguria dai nonni. Da premettere che la casa dei genitori di zia era sempre stato un vero e proprio porto di mare dove, all’occorrenza, approdavano i vari figli e nipoti sparsi in tutt’Italia ed oltre. Quell’estate, infatti, dopo le ragazze sarebbero arrivati dalla Germania la sorella maggiore di zia, con marito e due figlioletti.
Per la contingente necessità fu istallato per me un lettino da una piazza e mezza ai piedi del lettone, mentre mia zia e le ragazze avrebbero dormito nel letto grande.
Solo in piena notte mi resi conto di un fatto alquanto singolare: di lato al letto c’era una di quelle consolle antiche con una grande specchiera al di sopra, reclinata in avanti in modo da riflettere verso di me che ero sul lettino una perfetta visione delle tre donne sul letto.
E che visione!!
Data la stagione, tutte e tre dormivano in reggiseno e mutandine, lasciando scoperte le loro cosce meravigliose, i fianchi torniti, le natiche che fuoriuscivano prepotenti dalle mutandine ogni qual volta il lembo si infilava nel solco tra i glutei e poi seni ammiccanti, braccia, visi accaldati e l’odore “di femmina” che stordiva. Quel tripudio di grazie femminili, quell’autentico harem sotto i miei occhi, tutto quel ben di Dio come non avevo mai visto (all’epoca i film hard erano ancora di là da venire) ebbero l’effetto di scatenare dentro me una voglia folle che si placava solo quando i miei testicoli eruttavano la lava incandescente che vi covava dentro. Ma la calma durava poco per cui presto sentivo tra le gambe il bozzo imperioso del mio pene che chiedeva di uscire dallo scomodo nascondiglio per potersi ergere in tutta la sua possanza e dare sfogo al suo temperamento.
In quei 15 giorni che le ragazze trascorsero dai nonni dedicai loro e all’adorata zia una sequela infinita di seghe.
L’ultimo giorno della loro permanenza dai nonni (il giorno successivo sarebbero arrivati gli altri parenti dalla Germania), mentre eravamo sulla spiaggia a prendere il sole, mi accorsi che la sorella più piccola mi lanciava occhiate furtive, mentre sulle sue labbra le si stampava uno strano sorriso. Non immaginavo la causa di quelle occhiate e di quei sorrisini per cui la cosa fini con l’inquietarmi, ma cercavo di non darlo a vedere, fino a quando lei, approfittando della momentanea assenza di sua sorella e della zia, mi disse:
“Ho visto sai cosa fai la notte”.
“Cosa? Cosa hai visto…” balbettai intuendo a cosa si riferiva.
“Ho visto come ci guardi e come guardi la zia e le manovre che fai per poterci vedere meglio mentre ti meni il pisello come un ossesso” aggiunse lei.
“Io? Ma…” continuai a farfugliare.
“Non trovare scuse stupide per favore! In ogni caso stai tranquillo, so farmi i fatti miei!” concluse lei con un sorriso tra l’ironico e il malizioso.
Mi sentivo preso in castagna ed esposto al rischio di una figuraccia con zia. Non osavo pensarci e mille timori mi assalirono al pensiero che mia zia potesse essere informata. A pranzo fui piuttosto taciturno e non toccai quasi cibo, mentre con gli occhi continuavo a seguire la ragazza per indovinare le sue mosse. Al termine del pranzo lei mi fece cenno con gli occhi di seguirla ed uscì di casa. Ero sui carboni ardenti. Lasciai trascorrere qualche minuto dopodichè uscii anche io di casa. La ragazza svoltato l’angolo della casa entrò nel magazzino delle reti, uno scantinato sotto il livello della strada, buio ed intriso di puzzo di nafta . Entro a mia volta nel locale immergendomi nella penombra appena rischiarata dalla luce proveniente da un piccolo pertugio nella parete sul fondo. Il passaggio dalla luce accecante dell’esterno alla penombra interna, dal caldo torrido di quel pomeriggio estivo alla dolce sensazione di fresco dell’interno, attenuarono la mia inquietudine, anzi l’odore pungente di salsedine e di alghe di cui erano impregnate le reti rievocavano alla mia mente un’atmosfera erotica e risvegliarono nel mio corpo sensazioni pruriginosi.
“Vieni, entra e chiudi la porta” mi disse la ragazza stando in penombra. Ubbidiì incerto e timoroso per quello che la ragazza avrebbe detto.
“Vieni, non aver paura, non dirò nulla alla zia. Stai tranquillo…” così dicendo mi prese la mano attirandomi verso di se.
“Fammi vedere bene il tuo pisello, tiralo fuori dai, fammi vedere come ti seghi” continuò, poi, resasi conto che io restavo lì impalato, accostò la sua mano al mio basso ventre accarezzandomi a lungo al di sopra della sottile stoffa dei pantaloncini ed intrufolandola infine all’interno per impossessarsi del mio pene ancora floscio… Impiegò poco a rianimarlo e quando si rese conto di aver vinto la mia ritrosia, abbassò i miei pantaloncini e le mie mutandine e lo tirò fuori ormai turgido ed irto come l’albero di un vascello, mentre i suoi occhi scrutavano con estrema attenzione il risultato delle sue manipolazioni.
“Stai tranquillo, lasciati andare, non dico niente alla zia” mi sussurrava ora con voce dolce e suadente al mio orecchio, aderendo ancor più al mio corpo. Il suo tono di voce, unito al contatto fisico ed al calore che emanava il suo corpo portarono il mio piacere alle stelle mentre dalle mia labbra fuoriuscivano i primi sordi lamenti. Lei beve tutto con estrema attenzione, recettiva al massimo, pronta a carpire e registrare tutti i gradi di eccitazione che trasmetteva il mio corpo. Anche il suo respiro si era fatto greve, ma non accennò alcuna mossa, alcun gesto che potesse far pensare di voler un coinvolgimento diverso; sembrava bastargli ciò che stava facendo, cioè alternare il su è giù della sua mano prima lentamente e poi sempre più veloce. Al culmine dell’eccitazione il mio respiro divenne simile allo sbuffare di un treno in corsa, la mia schiena s’inarcò mentre il mio pistone entrava ed usciva possente dalla sua biella, ovvero la sua mano, fino a quando un rantolo soffocato e prolungato escì dalla mia bocca simultaneamente agli schizzi di sperma bianca che zampillano sulle sue mani.
Lei, finita la sua opera, scappò via senza profferire parola.
L’indomani mattina di buon ora le ragazze partirono e non le vidi mai più, anche se la zia spesso mi dava loro notizie.
La stessa sera sul tardi arrivarono dalla Germania la sorella di zia, con il marito e due figlioletti piccoli di 3 e cinque anni. La distribuzione dei letti subì una sostanziale rivoluzione: i nuovi arrivati vennero sistemati nella camera da letto grande; i due anziani genitori nel matrimoniale di zia Veronica, io e mia zia nel lettino ad una piazza e mezza collocato ai piedi del matrimoniale.
Già il fatto di tornare a dormire insieme a zia era un tormento, ma la condivisione di un letto di gran lunga più stretto del matrimoniale ci avrebbe praticamente costretti l’uno nelle braccia dell’altro, facendoci subire un vero e proprio martirio in cui i contatti fisici, volontari o meno che fossero, sarebbero stati infiniti ed inevitabili, mentre dall’altra parte nessun gesto volontario, nessun sospiro, nessun suono doveva venire da noi per tema che i due anziani genitori potessero scoprirci. C’era da uscire di senno…
Senza poi considerare che sia io che, come credo, mia zia, eravamo assillati dai sensi di colpa nei confronti di zio Marco, ovvero suo marito; entrambi eravamo consci che il nostro rapporto andava al di la della semplice tenerezza che vi può essere tra una zia adulta e un nipote in pieno sviluppo fisico; entrambi non osavamo superare questa barriera, consci di un ostacolo, ovvero l’esistenza di un’altra persona che non volevamo tradire, a cui non volevamo far del male, ma entrambi non potevamo e non volevamo rinunciare quella nostra dolce intimità.
La notte il suo corpo. quintessenza di femminilità, mi si mostrò in tutta la sua superba bellezza, le sue cosce lunghe e lisce come un velluto, il suo sedere proibito più di un “peccato” capitale; il suo profumo che faceva girare la tesa. Pur girandoci ora da una parte ora dall’altra non potevamo evitare di toccarci: una volta era un braccio cingere involontariamente la mia vita, un’altra era la sua testa ad appoggiarsi sul mio petto, mentre il suo seno pulsante aderiva al mio fianco; un’altra ancora era la sua lunga coscia ad accavallarsi al mio corpo portando la sua vagina pericolosamente vicina al mio pene; un’altra ancora era la morbidità delle sue natiche a strusciarsi contro il mio pene paonazzo ……
E notte dopo notte le mie mani registravano la convulsa stretta delle sue cosce, lo stirarsi parossistico delle sue gambe, i lunghi e scomposti brividi mentre veniva selvaggiamente, mentre lei accoglieva nelle sue mani amorevoli il seme mio guizzante.
E notte dopo notte la nostra passione si consumò così, negletta, negata, mai totalmente espressa.

La nostra “storia d’amore”, si, indubbiamente, la nostra era una “storia d’amore”, ebbe una svolta imprevista e dolorosa allorquando zio Marco decise di cercarsi un lavoro sulla terra ferma e trasferirsi definitivamente sulla cittadina costiera. I contatti fra me e mia zia si interruppero quasi del tutto. Negli anni successivi ci rivedemmo poche volte e in nessuna di queste occasioni ci furono le condizioni per ristabilire la sia pur minima intimità…
I nostri rapporti, quindi, almeno all’apparenza, rientrarono drasticamente nei canoni dell’osservante formalità. Mi consolava solo il leggere negli occhi di zia, così come lei leggeva nei miei, l’esistenza di un sentimento unico ed indistruttibile e di leggere sulle sue labbra una promessa silenziosa che, probabilmente, non avremmo mai avuto la possibilità di mantenere. Bastavano però queste certezze a lenire la cupa disperazione che aveva invaso i nostri cuori.

Arrivarono poi gli anni del liceo, le prime esperienze con altre ragazze, l’università a Genova, la laurea, il primo lavoro in Lombardia; arrivarono i primi rapporti stabili, intensi e partecipati, ma in fondo al cuore rimaneva sempre un piccolo spazio esclusivo riservato per lei, a zia Veronica. Nei suoi occhi, d’altronde, ogni volta ritrovavo lo stesso amore, le stesse promesse e ciò sembrava bastare a contenere il bisogno di quel bene prezioso, sedato, ma mai debellato.

Passarono altri anni, arrivò il mio matrimonio a cui Zia Veronica, che ormai aveva 39 anni, partecipò con gioia sincera pur velata dalla tristezza; arrivarono per me i figli, mentre zia Veronica non ne volle o non potè mai averne; arrivò anche il momento triste della morte dei suoi genitori, di alcuni suoi fratelli, poi quella dei miei genitori ed infine quella inaspettata di zio Marco.
Ma la scomparsa di zio non mutò la nostra condizione. Zia Veronica aveva 53 anni, ma il suo viso era ancora immacolato, anche se una piega triste le si era disegnata sulla sua fronte e, il suo sguardo, meno vivace di una volta, risentiva della solitudine in cui oramai era immersa.
Due anni dopo la morte dello zio, tornai a Genova per un convegno di tre giorni. Il primo giorno i lavori terminarono alle 17,00 e, mancando ancora tre ore alla cena, decisi di dare un colpo di telefono a zia Veronica per dirle che ero in zona e per sapere come stava.
Zia Veronica fù irremovibile e non ammise ragioni: dovevo andare a cena da lei.
L’invito perentorio, pressante ed ineludibile riapriva però le vecchie ferite. Ero incerto e confuso e allo stesso tempo eccitato. Avevo il timore di trovarmi solo con lei e che l’antica passione potesse farmi fare qualche passo falso, qualche gesto che lei avrebbe potuto non gradire. L’ultima cosa al mondo che volevo era deluderla.
Tuttavia mi preparai con meticolosità: barba, doccia, biancheria intonsa, scelta oculata dell’abito, della camicia, della cravatta…. Dal fioraio acquistai delle rose rosse: indugiai a lungo sulla scelta dei fiori, ma qualsiasi altro tipo di fiore che non fossero rose rosse, mi sembrava inappropriato. Percorsi febbrilmente i pochi chilometri che separavano Genova dal piccolo borgo marinaro, culla di tanti piacevoli ricordi. Arrivai finalmente davanti la porta del suo piccolo appartamento, suonai, sentii i suoi passi accostarsi alla porta, la chiave girare nella serratura, poi vidi lei …..
Lei. Si, lei! La donna che ho amato sin da quando ero ragazzo. Lei, l’angelo per cui ho versato tante lacrime. Lei, l’oggetto del mio desiderio negletto, ignorato, nascosto, soffocato per una vita intera. Lei, il mio sogno irrealizzabile; lei, il frutto proibito, era davanti a me, sorridente e con le braccia tese, per accogliermi in un modo che solo la persona amata sa fare. Tra le sue braccia mi sentii finalmente rinascere.
La strinsi forte tra le mie braccia. Nello stringerla, la mia guancia si fermò contro sua, il mio naso inspirò profondamento il suo delicato profumo, mentre le braccia la cingevano con tenacia mista a dolcezza, così da far aderire i nostri corpi.
A fatica ci separammo, eravamo entrambi coscienti della reciproca attrazione, del fuoco che avevamo dentro, fuoco mai spento del tutto; delle tante, mute e disperate promesse, dell’attesa durata lunghissimi anni, della consapevolezza di essere finalmente soli e liberi da condizionamenti. Ops, in realtà io non lo ero, avevo una moglie, ma in cuor mio sentivo, a torto o a ragione, che il nostro ostacolo era essenzialmente zio Marco che ora non c’era più e non potevamo più fargli del male.
La cena scorse via lenta e piacevole, in un’atmosfera intima e familiare nella quale entrambi pregustavamo ogni istante, ogni singola parola, i gesti più piccoli ed insignificanti. La felicità più pura e completa era disegnata sui nostri volti, sulle nostre labbra, nei nostri occhi che, inizialmente, si incrociano timidamente, con guizzi veloci e subito distolti, quasi a non voler svelare in anticipo nulla di quello che entrambi sapevamo di volere. Man mano però gli sguardi si fecero più insistenti e rievocavano le sofferenze, i silenzi subiti, l’amore mai espresso a parole, ma sempre manifestato con i nostri occhi. Il pathos crescente saturava l’atmosfera, l’attesa era diventata spasmodica, la passione covava inesorabile ed apriva squarci sempre più vistosi nella nostra apparente serenità e compostezza.
Lei allungò una mano sulla tavola che adagiò teneramente sulla mia, mentre i suoi occhi esprimevano una dolcezza infinita, procurandomi uno stato di grazia come mai avevo vissuto in vita mia . Ad un certo punto non riuscivamo più a staccare gli occhi l’uno dall’altro, le parole uscivano di bocca con difficoltà, mentre un fiume in pieno di sensazioni passava da me a lei e da lei a me, un fiume semplicemente e magnificamente dirompente.
Zia era tutta rossa in volto per cui si allontana un momento per andare in bagno, per rinfrescarsi, per trovare un attimo di requie rispetto al quel bombardamento massiccio di stimoli e di sensazioni. Al ritorno si fermò dietro di me, pose delicatamente le sue mani sulle mie spalle e depose un bacio sui miei capelli, inspirando profondamente per riempirsi le nari del mio profumo. Io le presi un braccio e l’attirai sulle mie ginocchia, la guardai intensamente negli occhi e vi lessi l’immensa gioia che provava nel ritrovarsi lì tra le mie braccia e l’irrefrenabile desiderio che aveva di me, del mio corpo. Le nostre labbra si unirono in un bacio riparatore e liberatorio che ruppe gli argini e diede inizio a ciò che aspettavamo da una vita. Le sue mani tennero stretto il mio viso mentre le sue labbra calde a carnose mi ricoprono di baci appassionati. Cercai e trovai di nuovo le sue labbra, catturai la sua lingua succhiandola con avidità, suggendo il suo nettare come il viandante disperso nel deserto sugge dalla sua boraccia. Con timore reverenziale le mie mani le cinsero la vita, esplorarono le sue natiche, le cosce, le gambe. Anche le sue mani carezzavano frenetiche la mia nuca, le spalle, la schiena. Quando poi ci rendemmo conto che la sedia su cui eravamo seduti limitava dolorosamente i nostri movimenti, il nostro esplorarci, la nostra voluttà smaniosa, ci alzammo per dirigerci verso la camera da letto, senza staccare mai le nostre labbra che suggellavano il nostro atto d’amore.
Lei si sfilò il vestito, restando in reggiseno e mutandine e si sedette sul bordo del letto. Io l’attrassi verso di me e spinsi il suo viso contro il mio petto. Nel far questo lei avvertì contro il seno la mia prepotente erezione per cui le dico: “E’ tuo ora, come lo è sempre stato e lo sarà sempre, amore mio dolcissimo”. Poi, mentre io toglievo la camicia, lei slacciò la mia cintura, sbottonò i pantaloni e li abbassò, tirò fuori il mio pene e lo adagiò tra i suoi meravigliosi seni mentre elevava gli occhi iniettati di passione verso di me. I nostri corpi si avvinghiarono ancora una volta, sentimmo la nudità delle braccia, dei ventri che aderivano l’uno all’altro, delle cosce si che si lambivano e si avvinghiavano. Via quindi il reggiseno, via i miei boxer, via le sue mutandine. La mia attenzione viene calamitata da suoi seni grandi e maturi, con appena un accenno di smagliatura, e dai lunghi e turgidi capezzoli che la mia bocca affamata catturano con un guizzo repentino per succhiarli con bramosia, prima uno, poi l’altro, facendoli rizzare ancor di più….
Il bisogno di possederci era ormai al culmine, i nostri lamenti già da un po’ uscivano inconsulti dalla nostre bocche; stavamo già godendo, per cui lei si sdraiò sul letto attirandomi sopra di se, poi spalancò le cosce, pose le mani sui miei glutei e mi attirò con forza dentro di se.
“Finalmente sono a casa mia, amore mio. Sono dentro di te…. Dentro di te…Ti prego non farmi più uscire, voglio morire così”. Le cosce si zia si avvinghiano sulla mia schiena assecondando e dando maggior forza ai miei convulsi movimenti pelvici. Ci prendemmo selvaggiamente, senza riserve, con la mente e con il corpo e quando alfine fummo al culmine esplodemmo in un lungo ed interminabaile orgasmo, gridando senza remore la nostra passione, godendo senza riserva, godendo per tutti gli anni aspettati, godendo con tutto l’amore che avevamo in corpo e che avevamo sempre provato l’uno per l’altro.
Ma non ci bastava un solo orgasmo, non ci demmo tregua, ancora tanto era il bisogno prenderci, di donarci, di scambiarci tenerezze, d’amarci…. Mi tuffai ancora una volta tre i suoi seni che costituivano per la mia bocca un’attrazione irresistibile; poi le mie labbra scesero sulla sua pancia, sui fianchi, sul monte di venere che percorsi con il naso pregustando il profumo di donna che promanava dalla sua “intima natura”. Il mio naso lambì dunque la sua sue grandi labbra ancora aperte e gravide di umori, suoi e miei; poi la leccai sempre più in profondità, conquistando le piccole labbra che continuavano e secernere nettare prezioso ed erotizzante e, quando infine rivolsi le mie labbra al clitoride, eretto come un piccolo pene, lei vaneggiò, impazzì, si dimenò come una furia, insaziabile, mai paga, smaniosa di avere sempre di più. Anche lei volle non più subire inerme le mia carezze, ma essere partecipe, dare ed avere, con uguale amore, con uguale passione. Catturò con le braccia le mie gambe e le attirò verso il suo viso, verso la sua bocca, per avere agio anche lei di sprofondare tra le mie cosce. Prese per la prima volta il mio pene fra le labbra e lo fece con amore, con dedizione, con dolcezza infinita, fino a portarmi nuovamente al culmine dell’orgasmo. Le sue labbra carnose, la sua intima voglia di me, la sua dolcezza mi regalarono sensazioni mai provate prima. Diventai pazzo anch’io, furioso, smanioso, insaziabile, follemente innamorato. Quando la nostra agonia arrivò al culmine scaricammo l’uno nell’altro le essenze dei nostri corpi, mentre intonavamo un prolungato e gutturale “Canto d’amore”.
Ma la notte era ancora tutta nostra, un infinito accumulo di dolcezza aveva necessità di essere smaltito e lo facemmo in carezze estenuanti, in parole appassionate che riecheggiavano il nostro passato di privazioni reciproche e di sofferenza. Quando poi il risveglio dei sensi ci riprese ancora, reiterammo all’infinito il rito atavico, il connubio tra un uomo ed la sua donna, ovvero amarsi, donarsi e godere del frutto del nostro amore.
All’alba, dopo una lunga notte d’amore piombammo in un sonno felice.
Persi così la seconda giornata del mio convegno, saltò anche la telefonata mattutina a mia moglie, saltarono gli impegni di zia. Quando aprii gli occhi la trovai intenta a guardarmi con un’espressione di infinita dolcezza.
“Buon dolce amore mio”, mi salutò. “Voglio che tu sappia che faccio tutto questo non per solitudine, non per voglia di sesso, non per voglia di esperienze forti. Faccio tutto questo solo per te e con te, perché ti ho sempre amato. In me è stata sempre chiara una cosa: che mai nessun altro, oltre te ed oltre a Marco, che era legittimamente mio marito e a cui volevo molto bene, avrà il privilegio del mio cuore, delle mia labbra, delle mie braccia. Io ero rassegnata a vivere la mia vita in perfetta solitudine, con nel cuore una fiammella mai spenta in tutti questi anni. Sapevo di non avere il diritto di nutrire per te, che sei felicemente sposato, questo sentimento e non mi sono fatta mai delle illusioni. Stanotte abbiamo derogato ai nostri doveri, abbiamo vissuto la nostra parentesi di felicità, ma ora bisogna tornare alla realtà e riprendere il nostro cammino così come abbiamo fatto fino ad’ora”.
“Cosa dici?”, obietto io allarmato. “Credi che io possa lasciarti così, facendo finta di niente, dopo averti cercata, sognata, per tanti troppi e dannatamente lunghi anni? Non ci penso neanche! Non voglio più perderti, non voglio mai più rinunciare a te! Costi quello che costi!”
“Non essere irragionevole…Come credi che la prenderà tua moglie? Non voglio fare del male a lei che non ha alcuna colpa e a maggior ragione ai tuoi figli”.
“Non voglio pensarci, ma non posso in nessun caso rinunciare a te. Se non vuoi che mandi all’aria il mio matrimonio non chiedermi di rinunciare a te”
“Pazzo, pazzo, meraviglioso pazzo… Amore mio immenso e nitido come le terse acque di una fonte, come faremo?”.
La domanda restò sospesa in aria senza una risposta, dopodichè la zia si diresse in cucina per preparare la colazione ed io andai a fare una doccia, ma nel lavarmi quella domanda continuava ad aleggiare minacciosa nell’aria, mentre un turbinio di pensieri affastellava la mia mente: “Cosa fare? Come impostare la mia e la sua vita? Come vivere in futuro la nostra storia d’amore?”.
Poco dopo, mentre ero seduto su uno sgabello ad asciugarmi, lei entrò nel bagno. Aveva i capelli tirati su e tenuti con un fermaglio ed indossava una sottoveste di pizzo, nera e trasparente, che le modellava il corpo e lasciava vedere abbondantemente il magnifico seno. Era più bella del solito e i miei occhi da innamorato non riuscivano a staccarsi da lei.
“La colazione è pronta” mi sussurrò lei, mentre io l’attiravo sulle mie ginocchia per baciarla a lungo, appassionatamente. Ad un tratto lei si sciolse dal mio abbraccio, si inginocchiò davanti a me, divaricò le mie ginocchia e si insinuò tra le mie cosce. Prese il mio pene ancora floscio tra le labbra ed iniziò a farmi un lungo e dolcissimo pompino. Lo fece con amore, lo fece con infinita dolcezza, con la consapevolezza che io gli appartenevo in tutto e per tutto e che lei mi apparteneva, anima e corpo.
Si può qui disquisire o meno sulla tecnica di fare un pompino, ma , ricordate, il pompino più bello è quello fatto con “amore”, perché ti fa sentire un tutt’uno con la persona che te lo sta facendo.
Anche il terzo giorno di convegno andò perso, ma ciò che mi premeva era stare il più a lungo possibile da zia, affinchè neanche un minuto andasse perso, neanche un orgasmo fosse rinviato, neanche una carezza negata.

Io e zia continuiamo a vederci tutte le volte che ne abbiamo la possibilità, ci sentiamo tutti i giorni, diverse volte al giorno, e continuiamo ad amarci come il primo giorno.
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