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Prime Esperienze

La prima padroncina


di Lillyrose
06.01.2024    |    8.865    |    12 9.6
"” Tentennai un attimo, poi capii che era nella sue mani, e non certo per le minacce..."
I computer mi piacciono. Mi piacciono proprio. Mi piace infilarci le mani dentro, controllarli, verificare le connessioni, cercare di capire i problemi, risolverli. Sono il Mr Wolf di Pulp Fiction dell’informatica.
Dimenticavo, sono Andrea, ho venticinque anni, sono magro, non molto alto, mi dicono carino, ma timido. Molto timido. Di ragazze ne vedo pochissime. E che fa nel tempo libero un timido come me? I notebook li usa anche per altro. Mi servono per incrementare le mie diottrie, tradotto: mi ammazzo di seghe. Mi sono fatto un bicipite da paura per quante seghe mi sparo. Mi porto in notebook in bagno, mi metto a cercare e la mano mi parte in automatico lo smanettamento.
Con le ragazze è più complicato, mi becco il classico due di picche. O forse è solo la paura di beccarmelo, comunque la mia mano non mi dice mai di no, e vado sempre sul sicuro. Ho una passione, però, quando Carlo mi manda a sistemare la rete di qualche cliente…
Ah, giusto, chi è Carlo? È il mio capo, ma in questa storia c’entra poco, e mi sta sul cazzo, quindi non voglio dargli notorietà, ce la mette sempre tutta per rompermi le palle. Dicevo quando vado a sistemare la rete di qualcuno, se è una cliente carina chiedo di andare in bagno, rovisto tra la biancheria e allora è il paradisone una sega veloce ci scappa.
Quella volta, però…
Beh, comincio dall’inizio. Carlo, quel fottutissimo bastardo, mi fa con quella sua voce che sembrava un grammofono “Andrea vai subito in Via Panisperna 5. Vacci subito! Non fare come al solito.”

Io ci andai subito, anche solo per non vedermelo davanti per un’oretta.
La giornata era fresca e il cielo limpidissimo e la cosa mi mise dell’umore giusto, ma quando mi si aprì la porta della villetta in via Panisperna 5 capiii che la giornata non era bella, era fantastica.
Una signora sui quaranta, bionda magra, occhi carta da zucchero. Ma voi l’avete mai vista una donna con gli occhi carta da zucchero? Indossava una vestaglietta crema, delle calze velatissime e due patofoline che nascondevano due piedini che sembravano cesellati da Cellini. Lo so che non si vedevano, ma la mia fantasia è fervida. I talloni si vedevano, però, ed erano liscissimi e si intuiva anche l’arco.
Insomma non ero neanche entrato e i mancava il fiato. Lei mi guardò un po’ scettica, visto il mio imbambolamento e mi fece entrare.
Cercai di sistemare tutto, lei era seduta in cucina, mi controllava e io, con le mani tremolanti controllavo tutto. Trovai subito il problema, che era banalissimo, ma non dissi nulla. Ogni tanto la sbirciavo con la coda dell’occhio. Ero eccitatissimo, si intravedevano due tettine niente male. Non grosse, ma sembravano perfette.
“Posso andare il bagno, per cortesia?” alla fine riuscii a dire.
Lei mi guardò seccata e con la punta del naso mi indicò una porta di fronte.
Mi chiusi dentro tutto trafelato, mi tremava tutto, incominciavo a sudare e non capivo più nulla. Mi guardai in giro, di fronte c’era il Sacro Graal. Il cestone della biancheria. Mi sentii l’Indiana Jones dei pervertiti. Spuntava fuori una calza bianca. Sembrava volesse salutarmi. La presi in mano e la odorai, poi la portai alle labbra. Era in paradiso. Cercai. Delle autoreggenti nere. Ci infilai la mano dentro. Erano delicatissime. Tremavo dall’eccitazione. Vedevo le mie dita in trasparenza e immaginavo le sue cosce. Un perizoma crema. Mi portai alla bocca anche quello. Lo baciai e lo leccai bene. C’era ancora il suo sapore. Il cazzo mi era diventato durissimo.
Sentii dietro di me un colpo di tosse e un “Bene, bene…” e il mio cuore si bloccò.
“Complimenti! Vuole forse favorire anche nella mia scarpiera?”
Mi girai. Mi stava guardando dall’inizio. Che cazzone ero stato. La serratura! Nella foga non avevo chiuso a chiave e lei evidentemente non si era fidata di me dall’inizio.
“Non so se denunciarti o limitarmi a farti licenziare! Sei davvero un misero coglione. Un segaiolo che si permette di rovistare tra la mia biancheria!”
“No, la prego, signora, non lo faccia.” ero davvero spaventato. Carlo mi odiava e non cercava altro che una scusa per licenziarmi. Non lo aveva fatto per paura de sindacati, ma questa sarebbe stata l’occasione che cercava da tempo.
“Sei davvero un cazzone! Ma come ti sei permesso?” era davvero furiosa, il suo tono di voce alto. Prese il cellulare in mano.
“No, la prego, la prego.” la mia voce era tremolante.
“Ma che cazzo devi pregare, segaiolo di merda! Ti sistemo io, altrimenti non ti ferma nessuno.”
Mi inginocchiai. “La prego. Non lo faccia, farò qualsiasi cosa lei mi chieda. Non pagherà nulla, ovviamente. Mi intendo di tante cose. Vuole che le sistemi il giardino? Farò quello che vuole. Tutto. Qualsiasi cosa!” ero davvero disperato.
Lei fece due passi in avanti, si sedette su uno sgabello e mi fissò.
“Sei un maiale! Rimani in ginocchio e continua a pregare. Vienimi più vicino e cerca di convincermi.”
Mi trascinai in ginocchio davanti a lei. Era bellissima e imperiosa. La paura mi stava facendo aumentare l’eccitazione.
“La prego, non lo faccia, glielo chiedo umilmente.”
Non osavo tenere lo sguardo in alto, ma sapevo che davanti a me c’erano i suoi magnifici piedini e le tue gambe avvolte dalle nere calze velatissime.
“Implora meglio, schiavetto.”
La parola schiavetto mi fece trasalire.
“Farò quello che vuole, signora.”
“Signora va bene, ma trova un altro modo per definirmi. Tieni presente che ho ancora il telefono in mano. Non sarà facile convincermi.”
“Padrona…” dissi con un filo di voce.
Non disse nulla e si passò un dito sulle labbra.
“Vai a prendere la cesta della biancheria e portala qui.” Obbedii. Che altro potevo fare?

Ero davanti a lei, in ginocchio e con la cesta a fianco.
“Spogliati!”
Tentennai un attimo, lei mi tagliò a metà con lo sguardo. Qualche istante dopo ero nudo di fronte a lei.
“Hai anche un cazzetto da niente. Neanche un bambino!”
In effetti ero eccitatissimo e non credo fossi messo male, ma lei voleva umiliarmi a tutti i costi e ci stava riuscendo.
“Sei una femminuccia, con quel cazzetto lì. Prendi le autoreggenti nere e indossale!”
Balbettai qualcosa, poi obbediii. Una sensazione stranissima, quel velo delicato sulle mie cosce mi fece eccitare ancora di più. Mi fece indossare anche il perizoma e il reggiseno. Tornò con un paio di decolletè con tacchi a spillo.
“Sono di mia cugina, le ha lasciate qui, l’atra sera. Vedi quanto sei fortunata? Credo ti stiano. Ti piaceva tanto il mio intimo, vedi quanto sono buona? Adesso lo indossi.” era determinatissima nel suo tono di voce.
Le scarpe mi stavano, in effetti.
“Guarda la mia puttanella come è sexy. Ti piaci?” e mi indicò lo specchio. Mi guardai, ero una donna a tutti gli effetti, se non per qualche dettaglio, che lei avrebbe senza dubbio definito molto piccolo.
“Bacia il pavimento dove sono passata io!”
Mi prostrai col viso per terra e baciai.
“Lecca!”
Cominciai a leccare il pavimento accanto alla sua patofolina. Ero eccitatissimo.
“Ora cerca nel cesto le mutande di mio marito. Non fare la timida, so che era quello che cercavi!”
“Veramente…”
“Veramente che? Obbedisci, stronzetta.”
Mi ritrovai con dei boxer amaranto in mano. Sul davanti c’era un’imprecisata macchiolina.
“Le ha usate ieri, Evidentemente la segretaria di mio marito, quella zoccola, deve essere andata in minigonna e a mio marito è spuntata una goccina di sperma. Prova a vedere se riesci a pulirla.”
Feci per andare in bagno.
“Che hai capito, stronzetta. Con la lingua. Puliscila con la lingua!”
C’era un odore fortissimo di sborra. Li avvicinai al viso.
Un rumore. Si aprì la porta. Un omone comparve davanti alla porta. Vide sua moglie sullo sgabello in vestaglia appena aperta sul ginocchio e in autoreggenti e la pantofolina che danzava maliziosa, e io vestito che troietta che gli baciavo i boxer. Mi tremava tutto.
“Betta, che sorpresa!” e chiuse la porta alle spalle. Sembrava Polifemo al rientro nella caverna.
“Questa stronzetta era venuta per sistemarci la rete internet e l’ho vista che rovistava tra le nostre mutande. Dovevo punirla, no?”
“Giusto!” si sistemò in uno sgabello accanto al suo.
“Ma.” fece lei. “Ha senso che lecchi le tue mutande, visto che ci sei tu in presenza? Se ti desiderava così tanto, perché non dobbiamo accontentarla?”
“No…” sussurrai.
“Che hai detto, troietta?” e mi mostrò il cellulare.
Chinai il capo in basso.
“Avvicinati a Marco.”
Arrivai in ginocchio davanti a lui.
“Allunga la mano sulla sua patta e dimmi se è come te lo aspettavi.”
Non osavo contraddirla, ma, ammetto, vestita in quel modo già non ci capivo più nulla. E già parlo al femminile per me. Ecco!
La mia mano sulla sua coscia. Per me era una sensazione nuova. Era la prima volta. Era calda e possente. Arrivai all’inguine. Era gonfio. Loro si stavano baciando. Un limone a tutte gli effetti.
“Tira giù la zip. Troietta.” disse, mentre ancora gli leccava la lingua.
Gli tirai fuori il cazzo era davvero grande e duro. Non ne avevo mai visto uno da così vicino. Tremavo.
Lei mi guardò il cazzo duro.
“Ora non ti permettere di mentire alla tua padrona, zoccoletta. Guardala anche tu, Marco, come è eccitata come una cagnetta… Ti piace il cazzo di mio marito?”
Non osavo fiatare.
“Ti ho fatto una domanda, schiavetta!”
“Sì, mi piace…” risposi con un filo di voce.
Avevo il suo cazzo durissimo in mano. Involontariamente avevo iniziato a giocarci. Lo segavo piano piano. Lei per premio mi fece baciare la sua pantofolina. Le baciai prima la punta, poi leccai bene. Il cazzo di lui mi pulsava in mano. Si sfilò le pantofoline e mi ordinò di baciarle i piedini, poi di leccarglieli. Per me le sue parole furono miele. Non desideravo altro dal primo momento in cui l’avevo vista, quando mi sembrava una dea stagliata sulla porta. La mia lingua scorreva con devozione sulle sue piante, intanto segavo il cazzo del marito.
Lei mi poggiò la mano sulla nuca e mi spinse verso il marito. Mi ritrovai con la sua cappella sulle labbra. Ero rosso di vergogna, ma eccitato come non mai. Glielo baciai senza che lei me lo ordinasse. Non capivo più nulla.
“Tira fuori la lingua e lecca!” obbedii in maniera automatica. Ma la voce di lei veniva da dietro. Nello stordimento non avevo visto che si era spostata.
“Come ti chiami?” mi fece lei da un punto indefinito della stanza.
“Andrea.”
“Che curioso, un nome sia da uomo che da donna. Adesso sei una femminuccia, una puttanella. La mia puttanella.”
Non riuscivo ad ammetterlo neanche a me stessa, ma mi stava piacendo. Mi sentivo femmina e troia. Leccavo quella gran cappella e mi piaceva farlo fremere. Con la lingua seguivo l’asta, le vene gonfie, fino ad arrivargli ai coglioni che baciavo con dolcezza. Mi infilai il cazzo in bocca. Non era facile farlo entrare per quanto era grosso. Provai a spingermelo dentro, ma mi sentii soffocare.
Mentre leccavo quella cappella enorme e facevo scorrere la mia lingua, la vidi di nuovo davanti a me, ma aveva indossato uno strapon di notevoli dimensioni. Trasalii. Si avvicinò al marito e accostò il suo pene finto al vero. Mi accarezzò il viso e cominciai a leccare anche il suo strapon. Un pompino stereo. Lei mise la mano sulla mia schiena e la fece scendere giù fino al solco, a cercarmi il buchino. Mi aprii come un fiore all’alba. Mi vergognai anche per la risposta immediata.
“Oh, oh. Guarda guarda.”
“Che c’è?” fece lui.
“Si è aperta subito, la troietta. Questa è da una vita che aveva una gran voglia di cazzo. Non voleva altro, questa puttana!”
Si mise dietro di me, sentii che mi faceva colare la saliva sul buchino, e mi penetrò con un dito, spingendolo fin dentro. Mi piaceva, mi piaceva maledettamente, mi cercò la prostata e il cazzo mi diventò durissimo, poi un secondo dito e infine me lo sentii puntato contro. Due schiaffetti sulla mia natica destra.
“Rilassati, o ti faccio male.”
“Ma…”
“Sh… Sh...” mi accarezzò il viso dolcemente, infilandomi le dita tra i capelli e mi face entrare la punta dentro. Mi sentii bruciare un po’. I miei piedi, avvolti dalle calze velate e nelle decolletè, si inarcarono un po’. Cominciai a spompinare con gusto l’uomo. Non capivo più nulla. Elisabetta me lo piantò tutto nel culo, si appoggiò alla mia schiena con le tette e iniziò a leccarmi collo e guance e mi sussurrò all’orecchio. “Brava la mia puttanella. Dimmi che ti piace il cazzo.” mi scopava con decisione, ma stava attenta a non farmi male.
“Mi piace il cazzo.”
“E cosa sei?” mentre continuava a montarmi.
“Una puttana, sono una troia…”
Me lo tolse da dietro e il marito prese il suo posto.
“No, no, quello no…” dissi poco convinta.
“Ma se non desideri altro.”
Il marito mi accarezzò le natiche con una dolcezza che non mi sarei aspettato da un omone come lui. Elisabetta mi baciò la punta del naso, mentre lui mi allargò le natiche.
“Ma sai che sei carina, Andrea?” mi disse lei, sfiorandomi le labbra con la sue. Lui si insalivò il dito e me lo spinse dentro. Elisabetta mi baciò le labbra e ricambiai. Marco mi poggiò la cappella calda sul buchino e mi accarezzò le calze. Lei mi leccò le labbra assaporandomi, le toccai la punta della lingua con la mia. Lui spinse appena il cazzo e me lo fece assaggiare nel buchino. Appena la punta. Mi sentivo che mi allargava.
Lei mi strinse le braccia per tenermi fermo e mi cercò la lingua nella bocca. Cominciammo a limonare, le nostre lingue si intrecciarono e scopavano le nostre bocche. Ero in un vortice e non capivo neanche più dove stessi. Marco spinse con un po’ di decisione e me lo fece scivolare dentro. Guardai dentro gli occhi carta da zucchero di lei e mi persi nella sua delicata perversione. Me lo spinse dentro al culo fino ai coglioni, mentre io mi stavo infatuando di sua moglie. Dio, che era bella!
“Non pensare a quel cattivone che ti vuole inculare. Che cattivo!” squittì con una voce vellutata. “Non ti piaccio? Pensa a me.” mi mise di nuovo la lingua in bocca e mi passò un po’ della sua saliva.
“Ora ti faccio un altro regalino.”
Si sedette davanti a me e mise la mano sulla mia nuca e mi indirizzò la testa tra le sue cosce. Sentii il cazzo del marito che gli cresceva dentro di me. La figa di Elisabetta era grondante, toccai le labbra con la punta della lingua, poi le leccai avidamente. Marco mi stava inculando con più decisione, più io le leccavo la moglie, più lui spingeva.
“Che fate, a gara?” disse lei, sorridendo, ma la voce era rotta dall’eccitazione. Le cercai il il clitoride e lei fremette, lo succhia ai fondo, fino a farla vacillare.
“Sì, sì, ci sono…”
Marco si sfilò mi venne davanti e ci impiastricciò di sborra calda. Era sul mio viso e sulla sua figa. Elisabetta gridò e tirò le punte dei piedini in avanti, venendo. Era di una bellezza unica, gli occhi persi sul soffitto. Le dita che tremavano.
“Dai, puliscimi.”
Tentennai un attimo, poi capii che era nella sue mani, e non certo per le minacce.
Succhiai la sborra dal suo monte di Venere completamente depilato, come tutto il resto.
Avevo assaggiato la mia parecchie volte, ma anche la sua era buona, raccattai ogni goccia, poi pulii la figa e le mie guance, raccogliendo col dito. Lei mi porse il piedino da baciare e glielo leccai.
Mi aiutarono e rimettere i miei vestiti da uomo. Elisabetta mi baciò sulla guancia e mi diede un pacchetto.
“C’è dentro il mio intimo, ti piaceva tanto…”
Mi salutarono dall’uscio della porta, come fossimo stati vecchi amici.
Io me ne andai con lo stordimento ancora vivo e gli occhi carta da zucchero e il sapore dei baci di Elisabetta.
Le gambe mi sfrusciavano, non avevo tolto le autoreggenti e la femminuccia che era entrata in me mi fece prendere un sensuale movimento dei miei passi verso la macchina.
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