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Luciana [6] - La fine


di foreignpress
12.06.2018    |    9.264    |    3 9.7
"Dopo una mezzoretta di riposo, Camilla si alzò dal letto e si diresse verso il bagno..."
Parte I

Il telefono di lei suonò che eravamo stesi nella vasca, entrambi nudi, a masturbarci prima di una doccia. Luciana aveva sempre più difficoltà coi rapporti completi, a meno che non la prendessi da dietro e molto lentamente. All’inizio del nono mese era più bella che mai, ma sofferente e rallentata. Mi dava l’idea di concedersi più per gentilezza che per desiderio, e se a volte la cosa mi eccitava – quando cioè trasformava la sua stanchezza in gioco, bendandosi con una calza e dicendo “sono un buco: fai tutto tu, tutto quello che vuoi” –, altre volte mi inibiva. In quei casi vedevo Luciana per quello che era veramente, una donna di quarantaquattro anni, bella ma con qualche ruga e alcuni segni di cedimento, che si era fatta mettere incinta da uno studente arrapato. Ero il primo uomo giovane e adorante capitatole a tiro in un momento di fragilità, che l’aveva portata, in ordine, a divorziare da un marito amorevole, fare la puttana a destra e a manca, e portare avanti una gravidanza dolorosa in età abbastanza tarda. Mi sentivo un po’ in colpa, e all’improvviso schiacciato dalla responsabilità: era una bella relazione, il sesso resisteva sfrenato e straordinario, ma oltre il lato ludico c’era una donna al nono mese di gravidanza e un bambino da crescere: un figlio mio. In quell’appartamento di merda, con Dario che ormai girava col cazzo al vento e ogni scusa era buona per farsi o farsi fare una sega in salotto. Guardavamo la tv su un divano chiazzato di macchie di sborra. Che mondo era? Una realtà parallela completamente deformata dal sesso, e che non lasciava spazio alla vita adulta.
Allo squillo del telefono ci arrivo tra un attimo, devo fare un passo indietro. Un giorno scrissi a Camilla, la ragazza con cui scopammo a Fuerteventura. Luciana aveva dolori, in quei giorni, ed era nervosa, e in me – anche se mi sento uno stronzo, ma tant’è – cresceva una voglia incontenibile del contrario di quella condizione: una ragazza più giovane, senza pancione, con la fica curata o del tutto rasata e un seno magari non grande, ma che quantomeno non sgocciolasse ad ogni palpata. Camilla mi era rimasta nel cuore e nelle palle, e ogni volta che la immaginavo sentivo un calore potente nel bassoventre, una cosa che non provavo dai primi tempi in cui mi incontravo con Luciana. Insomma, le scrissi, le scrissi per giorni e, caduti i giusti baluardi, le chiesi di incontrarci. Possibilmente da lei, o in un campo neutro. Accettò, mi fece capire che con Riccardo andava malino e mi disse di raggiungerla nel suo vecchio appartamento da studentessa, di cui mi diede l’indirizzo. E io ci andai, col cazzo in tiro fin dalla porta di casa mia, come non mi capitava da tanto.
Non ha senso raccontare con garbo e ordine cosa successe dopo. Mi aprì, entrai, ci sorridemmo, chiuse la porta e in un attimo le avevo slargato la canottiera e le stavo ciucciando i capezzoli e leccando i seni. Circa tre minuti dopo ero inginocchiato sotto di lei e le leccavo la fica, mentre con le mani mi teneva le labbra larghe. Scopammo due volte, guardandoci negli occhi e facendo caso a quanto fosse romantico il gesto della penetrazione. Alla fine le sborrai consecutivamente sull’addome, mentre mi incitava, e fui insolitamente abbondante. Mi costrinse a leccare tutto e a darle un bacio, poi mi stesi accanto a lei e mi presi qualche minuto per pensare a quanto, quella scopata, fosse stata normale. Normale in senso bello, in senso liberatorio. Una scopata ordinaria ma appagante, tra due coetanei esausti di vivere in una bolla di eccezionalità: il compagno maturo, impossibile da stupire e infinitamente porco nel caso di Camilla; la milf al nono mese di gravidanza nel caso mio.
Dopo una mezzoretta di riposo, Camilla si alzò dal letto e si diresse verso il bagno. Ci pensai un attimo, poi la raggiunsi. La porta era aperta, e non si schermì più di tanto quando mi vide entrare. Sorrise, fece un piccolo verso – “Eddai, che vergogna” – poi mi permise, silenziosamente, di restare. Mentre mi chinavo a terra, seduto a chiappe nude su un tappetino umido, sentivo lo scroscio della sua pipì. Le presi i piedi e, guardandola negli occhi, cominciai a baciarli lentamente, prima uno e poi l’altro. Avevano l’odore sincero della volta precedente, un profumo intenso di piedi appena appena sudati. Leccai tra le dita, succhiai gli alluci, me li passai entrambi sul viso e sul pisello, come una saponetta. Mi tornò duro.
“Dammi il culo”, le dissi.
Camilla rise, mi passò un piede tra i coglioni, li sfiorò piano col dorso.
Poi prese della carta igienica e si pulì la fica. “La prossima volta, molto volentieri”, rispose, asciugandosi. Dopodiché si mise in piedi e mi guardò dall’alto.
“Allarga un po’ le gambe”, mi disse.
“Perché?”
“Tu allarga”.
“Non è una cosa che si dice spesso a un uomo”, risposi.
“Non esiste cosa che non si possa dire a entrambi i sessi. Allarga queste gambe, un secondo”.
Le allargai. Le allargai parecchio, tenendomi le cosce ferme: sembravo Luciana spalancata dal divaricatore quando andavamo dal ginecologo.
Camilla mi studiava, mi soppesava le palle col piede, ma il mio cazzo cominciava ad ammosciarsi.
“Capisco che il ménage con Luciana sia diventato molto familiare”, mi disse, “ma dovresti curarti un po’ di più. C’hai una criniera, là sotto”.
La mattina dopo ero nella vasca, di nuovo a gambe larghe, che tentavo di depilarmi. Luciana entrò che indugiavo sulla scelta del rasoio: elettrico o tradizionale? Mi lanciò uno sguardo interrogativo, poi sorrise e venne verso di me. Si tolse shorts e canottiera, accese il rasoio elettrico e, di fatto, mi tosò. Poi, sempre senza parlare, sciacquò tutto, e si accasciò dentro la vasca invitandomi a fare lo stesso. Mi guardava con incredibile dolcezza, e per un momento – se solo i miei piedi non stessero per farsi largo l’uno verso la sua vagina, l’uno a premerle un seno, titillandole un capezzolo con l’alluce – mi sentii per lei come un figlio appena smascherato, e perdonato. Non avevo mai visto una figura materna, in Luciana, eppure in quell’istante, nudi dentro la vasca, eravamo indubbiamente come un ragazzo e sua madre, in un gioco di sguardi che contenevano confessioni.
“Chi te l’ha chiesta, questa tosatura radicale?”, mi chiese, portandosi un mio piede alle labbra.
Io mentii: “Ma nessuno. L’ho fatto per te”.
Luciana scosse la testa, poi si spinse verso il mio cazzo un po’ duro e cominciò a masturbarmi. Chinata verso di me, però, faceva molta fatica. Perché non si stancasse le proposi di masturbarci per conto nostro, guardandoci, e lei acconsentì. Mise una gamba sul bordo della vasca e si accarezzò dolcemente il clitoride: tra i peli scurissimi e folti, il taglio della fica risaltava in un rosso ardente. Anche io mi segai, ed eccitarmi guardandola fu molto facile: era bella, niente da dire, coi seni pesanti, i capezzoli tesi e scuri, la testa reclinata per il piacere, le dita dei piedi contratte e contorte per le fitte di godimento. Il suo orgasmo arrivò prima del mio, che dovetti stringermi i coglioni e chiudere gli occhi per sentirmi vicino a sborrare.
Lì, il suo telefono suonò una prima volta.
“Ci sono quasi”, le dissi, perché lo ignorasse.
Lei mi fece cenno di alzarmi, ché l’avrebbe preso in bocca. Seguii il consiglio e le spinsi il pene tra le labbra, lasciando che mi accogliesse. Si impegnò in un pompino perfetto, di impegno manuale e intensi colpi di lingua, che non a caso durò meno di un minuto. Quando sentii che stavo per eiaculare mi spinsi fuori, ma le mani di Luciana ferme sulle mie natiche mi costrinsero a restare. Ci guardammo negli occhi e con un accenno di sorriso mi comunicò, senza parlare, che dopo tanto tempo potevo venirle in bocca. Non lo facevo dall’inizio della gravidanza, ed ero molto eccitato. Mi lasciai andare a una sborrata copiosa, accompagnata da gemiti di soddisfazione. Più di dieci fiotti di sperma caldo che Luciana provò a trattenere e poi dovette ingoiare, non senza ripulire la cappella una volta finito. Le fui molto grato. Mi chinai a baciarla ovunque, sul viso, sui seni e sulla pancia. Poi il suo cellulare squillò di nuovo, e prima che mi alzassi a prenderlo Dario ce lo portò fin dentro la vasca.
Eviterò di riportare la conversazione, che fu intensa nelle emozioni ma fredda nelle parole: era il marito di Luciana, che dopo aver visto il video voleva incontrarci. Lei ci pensò un po’, poi acconsentì. Lo avremmo incontrato da lì a qualche giorno nel loro vecchio appartamento, perché Luciana non facesse troppa strada.

Parte II
Luciana mi aveva chiarito che non c’era il rischio di una ritorsione, per via di quel video, e io mi fidavo. Entrammo nell’appartamento e trovammo Giovanni (così si chiamava) in jeans, maglietta e scarpe da tennis. La casa era piena di pacchi, ma molto pulita.
«Torno a vivere qui», ci disse, salutandoci senza troppa cordialità. «Volevo avvisarvi».
Ci offrì da bere, io accettai un limoncello che versò per entrambi, poi ci invitò a sederci. Cominciai a provare un lieve imbarazzo, ma non mi andava di mostrarlo: quel video non voleva essere una cattiveria ma una nostra perversione; speravo che lo capisse e che andasse oltre. Luciana, se anche era emozionata, non lo dava a vedere. Non aveva mai smesso di parlarmi bene di suo marito, e un paio di volte l’avevo trovata a piangere mentre scorreva foto sul cellulare. Anche in quel caso avevo accuratamente evitato di indagare.
«Vi dico subito che il video è stato una stronzata. Potrei metterlo su internet, girarlo a qualcuno. Potevo anche impazzire e distruggervi la macchina.»
«Non sei il tipo», disse lei.
«No, infatti», rispose lui, sorseggiando il limoncello. «Come va tra voi?»
«Giovanni, non ho intenzione di parlare di questo».
Infatti, pensai io. Come andava tra noi? Dovevo chiedermelo?
«La gravidanza?»
«Molto bene, grazie».
«Che mese? Settimo?»
«Nono, Giovanni. Si vede, lo sai benissimo».
Osservavo il marito di Luciana. Era un uomo molto bello, dignitoso. Aveva occhi piccoli e non troppi capelli, ma un fisico con cui il mio non poteva reggere confronti: muscoli ben distribuiti, tanto per cominciare, e non un filo di grasso. Cosa ci trovava, Luciana, in me?
Giovanni finì il suo limoncello, poi si sporse e cominciò a parlare.
«Ascoltatemi bene. Il video non lo pubblico, non lo diffondo e non lo userò neanche in tribunale, per il divorzio».
Alla parola “divorzio” Luciana deglutì. Giovanni se ne accorse, quindi continuò a parlare.
«Però voglio una cosa in cambio. E non azzardatevi a chiamarlo ricatto, perché sei liberissima di non acconsentire».
Io e Luciana ci guardammo.
«Cosa?», chiesi.
«Che mi faccia quello che ha fatto a te, e che tu ci guardi. Che, prima di tenertela, provi quello che ho provato io. Poi fate il cazzo che vi pare».
Ci prendemmo qualche secondo, poi Luciana rispose «Cioè mi vuoi scopare per un’ultima volta, mentre lui ci guarda».
«Sì».
«Per me va bene», dissi. A bruciapelo, così, senza pensarci. Luciana mi guardò, lui sorrise.
«Luciana? Il ragazzo è d’accordo».
Luciana scosse la testa e, repentinamente, si alzò. Provai a seguirla, ma si chiuse una porta alle spalle e vi restò dietro per un tempo molto lungo. Temetti che stesse male, che si fosse offesa, che stesse piangendo. Volevo raggiungerla, ma mi sentivo un’idiota all’idea di bussare disperato ad una porta sconosciuta, peraltro in casa di quell’uomo. Stavo per decidermi quando la porta si aprì e Luciana ne uscì nuda e – lo aveva fatto a casa, prima di venire? – col pelo della fica accuratamente accorciato. Bellissima.
Giovanni rise di gusto, e si posizionò più comodo sul divano. Luciana, invece, si inginocchiò con un po’ di fatica. Potevo vedere il suo culo schiuso contro di me, e le piante dei piedi vagamente arrossate.
«Vuoi che ti faccia quello che faccio a lui?»
«Sì».
«Bene», rispose lei, come fosse una sfida.
Cominciò a slacciargli i pantaloni, e poi le scarpe. Lui si tolse maglietta e mutande, e quando fu nudo dovetti constatare che – pisello a parte, più lungo del mio ma più sottile – era attraente anche da svestito. Lei cominciò leccandogli i piedi, a lungo, poi salì su verso lo scroto. Gli allargò le gambe, alternò palle e buco del culo, e infine cominciò un pompino. Era brava, Luciana, coi pompini, e lui lo sapeva. Gemeva. Dopo qualche minuto di estasi alzò lo sguardo verso di me e mi disse «Segati, se vuoi». E io lo feci. Mi spogliai nudo, sperando di eccitarli in qualche modo, augurandomi che Luciana mi coinvolgesse, eppure sembrava essersi dimenticata che esistevo. Ogni tanto si accarezzava la pancia, prendeva fiato, ma per il resto era come asservita, devotissima a quel momento: se lo godeva.
Dopo dieci minuti di pompino, Giovanni le accarezzò dolcemente la testa e la allontanò dal suo cazzo, chiedendole un bacio. Lei glielo concesse, poi si lasciò condurre per mano verso la camera da letto. Lì si stesero e si chinò a leccarla, a lungo, mentre si masturbava. Aveva il cazzo gocciolante. Le dita di un piede di Luciana gli raggiunsero in qualche modo le palle, che accarezzarono.
Quando sentì che Luciana, in preda ai gemiti, era prossima a venire, Giovanni si alzò, si avvicinò col bacino verso la fica, prese le caviglie e cominciò a leccarle i piedi. Poi disse, molto dolcemente, «Sto entrando».
Nella stanza si diffuse un intenso odore di pisello. Lui la pistonava a un ritmo molto personale, tramite colpi intensi ma tutto sommato lenti, o meglio intervallati da pause. Tum-tum-tum-tum. Luciana urlava a ogni affondo, gemeva, piangeva: era in estasi. Non sembrava più la gestante stanca e svogliata delle ultime settimane, ma un’amante sfrenata e vogliosa, che sindacava per la sua legittima razione di cazzo, di sborra bollente, di orgasmo vaginale. Il pancione non pareva un impedimento: riceveva a gambe aperte, mentre lui la penetrava stringendole le caviglie, e divaricandola quanto più poteva. Dalla mia postazione la vedevo aggrapparsi alle lenzuola, tirarle, lasciarle andare, cercare un nuovo appiglio sulla pelle dell’amante.
Erano sudati come maratoneti. A un certo punto si lanciarono uno sguardo, e lei fece un gesto, una specie di rotazione, con la mano sinistra. Lui si sfilò, continuando a menarselo, e si stese a gambe un po’ larghe sul letto. Luciana gli salì di sopra e, impugnatogli il pisello, provò le basi per un 69. Verificato che la pancia non glielo permetteva, si accontentò di masturbarlo mentre gli strusciava la fica sulle labbra.
Stavo lì, in poltrona, col cazzo in mano, e mi chiedevo perché mai si fossero lasciati. Credevo che a letto non funzionasse, che non avessero intesa, e invece eccomi impallidire davanti a un amante forse meno porco ma di certo più amorevole e capace. Un compagno più bravo e altruista. Un uomo innamorato.
«Vengo», disse Luciana, torturandosi i seni. Lui, da sotto, dovette aumentare il ritmo dei colpi di lingua, perché lei a un certo punto strabuzzò gli occhi e cominciò a urlare.
«Cazzo, cazzo», diceva, e intanto cedeva ai movimenti meccanici che l’orgasmo le dettava: spinte, convulsioni, un cedimento laterale verso la fine. Si accasciò, passandosi una mano sulla fica e tenendola come protetta, perché quel piacere non fuggisse via.
Passato circa un minuto lui le indirizzò il pisello contro la fica, bagnatissima, e lei si dispose diligentemente a pecorina. Era esausta. Il marito spinse molto forte da subito, baciandole la schiena e accarezzandole i seni. Dopo poco rallentò, assestando colpi prima più radi ma decisi, poi più frequenti ma dolci, circolari. Luciana ricominciava a godere, e affondò la testa nel cuscino, gemendo.
«Ci sono quasi», disse lui.
Lei alzò di poco la testa e rispose «Vienimi dentro, amore».
Non servì molto altro. Guardai lui, guardai lei, e capii in un attimo di non essere più il compagno cuckold, ma lo spettatore di un ricongiungimento. Un terzo non troppo incomodo, ma di certo dimenticato.
Giovanni si lasciò andare a un lieve mugugno e a una manata contro il materasso, poi stazionò silenziosamente nella vagina di sua moglie per qualche secondo. Infine uscì, il cazzo ancora dritto, aprendo le porte a una fitta colata di sperma bianco. Luciana non se ne curò. Si mise su un fianco e chiuse gli occhi, lasciando che le gambe e le braccia muscolose di Giovanni la cingessero.
Per un po’ attesi, poi uscii dalla stanza e mi rivestii. Tornai nell’appartamento e mi feci una doccia. Pensai che non mi era mai successo di lasciare una sega a metà, e quasi mi venne da ridere. Non provavo rabbia, non provavo tristezza né gelosia. Solo un senso di straniamento, di rivoluzione. Feci partire l’acqua e feci quello che sapevo fare meglio: provare a non pensare.

La notte che nacque la bambina non la racconto, qui sarebbe fuori contesto, ma fu praticamente quaranta ore dopo quell’incontro. Sì, ho contato le ore perché in quei due giorni cambiò tutto, probabilmente in meglio. Dirò solo che ero felice, in un modo tutto mio, e abbastanza affrancato dalle responsabilità: la famiglia erano loro, Giovanni e Luciana e quella bimba; io ero un ragazzetto scatenato che aveva fatto la sua parte e che, dopo aver provocato la tempesta si godeva la quiete, cercando di capire cosa avesse di bello. Vedo sempre Luciana, e vedo sempre suo marito. E sì, vedo anche la bambina. Il come e il dove sono fatti miei. L’ultima cosa che voglio dire è che quella notte, poche ore dopo aver lasciato l’ospedale in cui Luciana aveva partorito, raggiunsi Camilla. Non le permisi di parlare, la spogliai lentamente e la portai sul letto. E per la prima volta nella mia vita feci l’amore dimenticandomi di avere dettagli da poter raccontare. Eravamo noi due, e avevamo imparato. Una ragazza da amare, e un uomo innamorato.
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