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Lui & Lei

Respiri dietro le quinte


di DueRagazziperDonna
17.02.2024    |    26    |    0 6.0
"Una andò verso la nuca, facendo in modo che le dita fossero avvolte in quella nera giungla sinuosa di capelli, così da poter avvicinare il suo volto al..."
Tirai un sospiro, ma non di sollievo. Era uno di quei sospiri lunghi, pesanti, che fanno
immediatamente capire a chiunque lo ascolti che le cose non vanno, che sei stufo e che, beh, ne hai
le palle piene. Per fortuna però questo non poteva succedere, dopotutto ero qui da solo davanti le
console in regia. Certo chiamarla regia richiedeva una certa audacia visto che stiamo parlando di un
paio di console messe sopra un tavolino scrauso in un teatrino scrauso di una cittadina scrausa.
Erano almeno tre ore che stavo seduto qui, a dare una mano ai miei compagni che facevano lezione
a dei ragazzini, ragazzini che tra l’altro difficilmente sopporto. Credo sia chiaro che faccio tutto
questo solo per avere una piccola entrata mensile, o almeno era quello che mi dicevo. C’erano dei
giorni che mi chiedevo se fosse solo quello il motivo e oggi probabilmente era uno di quelli. Era una
di quelle giornate grigie, con il cielo quasi completamente coperto da nuvoloni carichi di pioggia e
un leggero vento. Già ore prima, dalla nostra partenza in macchina per raggiungere il teatro, erano
iniziate a cadere alcune gocce di pioggia leggere leggere. Come mio solito, dopo aver sistemato un
paio di file e cartelle al computer, decisi che era il caso di entrare nel mood più classico e banale che
tutti hanno in queste situazioni: cuffiette e sguardo perso ad ammirare, senza guardare veramente,
il panorama fuori dal finestrino. Lo so quello che state pensando: che tutto questo è il più stereotipo
degli stereotipi ma che ci devo fare, sono una persona la cui mente vaga molto e questa è una di
quelle situazioni in cui è più bello e comodo farlo. Tornando al finestrino. Non prestavo molta
attenzione, dopotutto quella strada la facevamo più volte alla settimana, ormai conoscevo bene
cosa ci fosse oltre quel pezzo di vetro. Quella volta mi concentrai sulle gocce di pioggia che colpivano
il vetro. Picchiettavano leggermente il vetro e scorrevano creando delle linee che, chissà perché,
quel giorno catturavano particolarmente la mia attenzione tanto che neanche facevo più caso alla
musica che stavo ascoltando, già messa bassa di suo come sottofondo. “Madonna guarda là che
nuvoloni, ci fracichiamo dopo”. Quelle parole del mio amico mi fecero uscire un attimo dalla trance
che mi aveva preso nel guardare la pioggia dal finestrino. Mi girai nell’altra direzione per guardare
le nuvole e venni subito distratto di nuovo, ma forse questa volta era meglio guardare ancora la
pioggia. Nel girarmi il mio sguardo fu completamente catturato da una cosa ben più interessante
delle nuvole. Proprio sul cruscotto davanti al sedile del passeggero c’erano loro: un paio di piedi
piccoli, svettanti, tesi, stretti tra di loro come fossero in un abbraccio e avvolti nel nero
semitrasparente di un paio di calze. Appartenevano a lei. Probabilmente ne avete già sentito parlare,
ci sono già state un paio di avventure legate alla sua figura. Era quella mia amica che no, non odiavo,
non era quello il termine adatto. Altrimenti, come al tempo non mi sarei ritrovato sotto casa sua in
auto ad aspettarla in pigiama, ora non mi sarei ritrovato a fissarla. Ero inebetito nel guardarla e,
ahimé devo ammetterlo, mi stavo approfittando della chance di non essere scoperto visto che le
altre persone in auto erano addormentate e potevo agire non visto. Perciò mi ritrovavo lì, su un
sedile posteriore a guardare questa piccola addormentata sul sedile anteriore, come fosse un
percorso di desiderio che partiva da quei fluenti capelli neri che cadevano a cascata sulle spalle
minute proprio davanti a me, per poi scendere sul piccolo seno che si faceva notare mentre il petto
si alzava e abbassava lentamente per il respiro. Dopo una breve tappa su quei fianchi morbidi e
invitanti, parzialmente nascosti dai vestiti che in realtà ne accentuavano le forme, ecco che gli occhi
scivolano su quelle piccole gambe e, infine, ecco proprio lì l’agognato traguardo. Quei due piccoli,
eccitanti e invitanti piedi che troneggiavano lì, davanti a me, come fossero il libidinoso trofeo della
gara appena descritta. Anche oggi, come la prima volta, ci ritrovavamo in una macchina che pian
piano veniva coperta dalla pioggia. Senza volere, in maniera completamente naturale e animalesca,
feci un profondo sospiro, di quelli che portano con sé tutto il peso che senti nel petto e nella pancia.
BOOM. Una buca rovinò l’atmosfera facendo risvegliare gli altri, lei compresa. Tornai
immediatamente a guardare di fuori dissimulando quello che avevo appena fato, ma con la coda
dell’occhio notai una cosa. Per un momento mi sembrò di vedere lei che, dopo un rapido sguardo
verso di me, fece un mezzo sorriso, fugace, quasi istantaneo, per poi decidere di cambiare posizione
e togliere dal piedistallo quel trofeo. Forse mi sbagliavo, forse ero preso dal momento e la mia testa
ha visto quello che voleva vedere ma una parte di me ne era sicura: lo aveva fatto apposta. Beh era
meglio non pensarci in quel momento, meglio pensare al lavoro da fare. Tornando a noi erano ormai
quasi tre ore che ero lì seduto e, di fuori, la pioggia era aumentata e il picchiettare delle gocce si era
trasformato in un vero e proprio concerto di gocce contro il muro, al quale ogni tanto si aggiungeva
qualche nota creata dal vento che aumentava e diminuiva con costanza. “Posso bere?” disse lei
mentre svitava il tappo e iniziava a bere dalla mia bottiglia senza neanche aspettare la risposta; non
che questo importasse visto che era una semplice domanda di circostanza, considerando quante
altre volte lo aveva già fatto. Con quelle parole ripresi la concentrazione. Ero assorto nel leggere un
articolo sul telefono in quel momento e neanche mi ero accorto che lei fosse venuta lì vicino a me.
“Che chiedi a fare se bevi comunque?” dissi con un po’ di ironia mentre posavo il cellulare sul
tavolino scrauso. Iniziai a guardarla. Quel look un po’ da burinotta, con quel felpone e i pantaloni,
stretti in vita ma più larghi sulle gambe, entrambi avana, che nascondevano parzialmente le sue
piccole ma morbide forme. La felpa tutto sommato faceva un buon lavoro, lasciando vedere solo un
leggero solco del reggiseno sotto di esso. Non potevo non apprezzare anche il contrasto che si
creava tra il colore chiaro della felpa e il nero vivido dei suoi capelli che, ancora più di prima grazie
alla posizione, cadevano sulle spalle e raggiungevano l’altezza del petto, quasi a creare una cornice
a quel piccolo solco citato poc’anzi. Il lavoro peggiore lo facevano i pantaloni però. Non
nascondevano nulla, anzi al contrario accentuavano la rotondità e morbidezza di quei fianchi e del
sedere, come una carta regalo che non vedi l’ora di strappare, anche qui complice la posizione: un
po’ di profilo con il peso del corpo su una gamba sola, il modo migliore per accentuare quelle forme.
Tirai un altro, leggero sospiro. “Chiedevo per correttezza” rispose prima di dare un altro sorso. La
mia attenzione venne attirata dal suo collo, che spuntava tra i fluenti capelli neri e si muoveva
mentre beveva e mandava giù l’acqua, nel mentre le sue labbra umide attaccate alla bottiglia
mostravano una lieve lucentezza. Mi sentii come un lupo che puntava il collo di una preda e, proprio
come un lupo affamato, sentivo aumentare la mia salivazione. Mi ripresi da quel lungo istante
rispondendole “E se avessi detto di no?”, con un po’ di ironia accennando un piccolo sorriso
provocatorio. Lei non rispose, ma fece di peggio. Mi guardò. Non con aria da “Dai falla finita” o “So
che non lo faresti”. No, peggio. Rimase attaccata a bere, lanciandomi uno dei suoi sguardi. Uno di
quelli che ti sfidano, con un mezzo sorriso e gli occhi semi chiusi che dimostrano l’aria da stronzetta,
il tutto incorniciato dalle lenti dei suoi occhiali neri, neri come i capelli. Uno di quei sguardi che
sembrano voler dire “Dai su provaci” o “Ah si? Fammi vedere se hai il coraggio”. Iniziavo a non
trattenermi più. Forse non mi ero sbagliato in macchina prima, perché aveva continuato per tutta
la giornata a prendermi in giro e stuzzicarmi con occhiate e sorrisini allusori, cosa che sapeva bene
come fare e aveva già fatto in passato. Sia fuori che durante le nostre precedenti avventure e, ormai,
erano già tre ore che insisteva pesantemente in questo modo. Non mi trattenni e, accettando il
guanto di sfida, strizzai velocemente la bottiglia mentre era ancora attaccata. Come previsto schizzò
fuori un po’ di acqua, bagnandole parzialmente la felpa, la faccia e il collo. Rimasi un attimo distratto
dal vedere quelle gocce accentuare e rendere più lucenti le linee della muscolatura del suo collo.
Quello fu l’attimo fatale, l’attimo in cui la serata prese una piega diversa. Afferrò velocemente la
mia mano e le diede un morso. Un occhio esterno potrebbe vederla come ripicca per lo scherzo
appena fatto, ma entrambi sapevamo che c’era altro. Lei sapeva l’effetto che avevano su di me quei
piccoli morsi soprattutto se poi, come fece lei, ci si aggiunge un veloce ma intenso guardarsi negli
occhi con ancora i denti intorno alla carne. Avevo appena risposto alla sfida e lei aveva lanciato un
secondo guanto. “E che cazzo!” disse a mezza bocca staccandosi dalla mia mano, per non sembrare
troppo volgare agli occhi dei ragazzi che in parte si erano girati a vedere cosa fosse successo.
Dissimulai con un paio di battute e in poco tornarono concentrati sugli esercizi che stavano facendo
in quel momento sul palco. “Che cazzo non ho neanche il cambio” disse mentre provava ad
asciugarsi il collo con le mani. “Beh potevi chiedere di bere prima”, accennai un sorrisetto più
sfrontato. “Ma vaffanculo. Io vado in bagno, provo a darmi un’asciugata” disse facendo per andare
in camerino. Si fermò un istante prima di andarsene, e ci guardammo negli occhi. Quegli occhietti
piccoli e scuri, che mostravano sfida ma anche tanta tanta voglia. E lo avevo capito bene. Ormai
avevo capito bene cosa stava per accadere. La osservai attraversare la platea e dirigersi dietro il
palco, nei camerini; feci particolare attenzione all’ancheggiare di quei fianchi. Aspettai qualche
minuto, giusto il tempo di creare il giusto distacco e la giusta attesa e, nel mentre, già il mio corpo
pregustava quello sarebbe successo da lì a poco. Mi alzai con la scusa di andare in bagno, tanto in
quel momento non servivo durante la lezione. Camminai con calma verso i camerini, usando l’altra
porta opposta a quella usata da lei. La mia mente vagò un’altra volta. Mi ricordai di un documentario
visto anni prima: mostrava un lupo che seguiva silenziosamente una preda nel bosco, senza farsi
notare. Certo non è ciò che dovrebbe pensare una persona in certi momenti, ma credetemi se vi
dico che mi sentivo davvero così in quel momento. Le poltrone della platea erano gli alberi, le altre
persone animali dai quali non dovevo farmi scoprire, io il lupo affamato che silenziosamente seguiva
la traccia e lei la piccola preda che avevo puntato. Una preda succosa e sicuramente soddisfacente.
Entrai silenziosamente nel camerino poco illuminato. L’atmosfera era già adatta. Lei era lì, in piedi
vicino una delle panche, a cercare di asciugare la felpa che ora non aveva più indosso, o almeno
faceva finta di farlo. Indossava una magliettina nera più stretta sotto la felpa e Dio, credetemi se vi
dico che quel piccolo contrasto di nero e avana accentuava divinamente quei soffici fianchi. Mi
avvicinai da dietro e la presi per i fianchi, stringendola a me, in maniera quasi animalesca ma sempre
con quel tanto che basta di dolcezza; mi sarò sentito anche un lupo, ma bestia completa no. Ci volle
poco per aumentare la tensione. Appena le strinsi i fianchi e la portai a me lei cacciò un piccolo,
rapido e acuto sospiro, incoronato da un piccolo gemito e una risatina, anch’essa da stronza, nel
sentire il mio pene spingere sopra il suo sedere. Le mie mani ora avvolgevano completamente i suoi
fianchi, e le dita si facevano strada sotto la maglietta strusciando lentamente sulla morbida carne
della sua pancia. Le sue piccole spalle appoggiate sul mio petto e la sua nuca, avvolta da quei capelli
neri, proprio davanti la mia bocca. Potevo sentirne l’odore. Era un odore leggero, morbido lo
descriverei, come la vaniglia. Le baciai la testa. Le mani ormai avevano trovato la loro strada. Una
salì su, seguendo come un sentiero le pieghe della muscolatura, fino ad arrivare al seno; l’altra
invece scese giù a valle fino a incontrare le sue mutandine. Nulla di elaborato o prettamente erotico
come mutandine di pizzo o altro, dopotutto era una giornata normale, nulla di ciò era previsto o
immaginabile e, forse, era proprio questo a renderlo più eccitante. Lo stesso non si può dire della
mano che andò verso il seno. Lì la situazione si faceva più interessante. Curiosamente non incontrò
alcuno ostacolo di biancheria: era senza reggiseno. La cosa si fece interessante perché io ero sicuro
di aver visto il classico solco che forma sotto gli indumenti. Me ne resi conto semplicemente
spostando lo sguardo verso la panca citata poco fa. Lì sopra, nascosto malamente dietro il suo
zainetto nero, si vedeva il profilo di un reggiseno nero esattamente della sua taglia. Capì subito cosa
era successo. In quei pochi minuti di attesa del mio arrivo si era levata non solo la felpa ma anche il
reggiseno. Era sicura del mio arrivo e aveva scelto di aspettarmi e farmi credere di non sapere che
l’avrei raggiunta. Aveva accettato il ruolo di preda. Questo pensiero mi eccitò ancora di più. La mano
fece uno scatto verso il seno per avvolgerlo e iniziare a giocare con il piccolo capezzolo giù duro e
sporgente. Quella cosa eccitò anche lei, portandola a emettere un ulteriore, piccolo e trattenuto
gemito di godimento. Lasciò cadere la felpa per terra e portò una mano nei miei capelli. Tutto questo
mi fece indurire enormemente il cazzo. Con l’altra mano scostò su un lato i fluenti capelli neri,
lasciando completamente libero un lato del suo collo. Capì subito quello che voleva nel momento in
cui inclinò leggermente la testa. Quello era il primo vero bersaglio. Proprio come il lupo mi avventai
su quel bel collo color alabastro, morbido e ancora leggermente umido dall’acqua versata prima.
Iniziai a baciarlo con passione, affamato della sua carne e del sapore che questa mi lasciava in bocca.
Alternavo baci e piccoli morsi al ritmo dei suoi sospiri di godimento trattenuti, facendole arrossare
completamente quel lato del collo. La sua mano tra i capelli iniziava a stringere di più e nel mentre
l’altra la fece scivolare sui miei fianchi fino ad arrivare sul solco che il mio pene duro faceva sui
pantaloni. Non appena la sua piccola mano fu sopra iniziò ad esplorarne la forma e a massaggiarlo
con piacere, come potevo tranquillamente intuire dalla lieve risatina eccitata che interrompeva i
gemiti che faceva. Decisi di salire verso la bocca, non mi bastava più il collo dovevo sentire quelle
labbra. Levai le mani da sotto i suoi vestiti, la presi per le spalle e la girai verso di me per poi stringerla
di nuovo. Ci guardammo negli occhi per qualche secondo, assaporando entrambi il caldo e profondo
respiro dell’altro; un respiro che dimostrava tutto quello che volevamo fare ma non potevamo dire.
Una passione che si consumava per il semplice gusto del “Non dovremmo farlo”. Litigavamo spesso,
come spesso lei mi aveva usato come confidente per uno di quegli ennesimi episodi di idiozia
giovanile. Da quella volta in auto queste cose non erano all’ordine del giorno, anzi capitavano
raramente, ma sempre nello stesso modo: quando le acque erano calme improvvisamente uno dei
due iniziava a stuzzicare e dar fastidio all’altro, portando a una escalation in cui volevamo vedere
chi dei due cedesse prima. Ahimè ero praticamente sempre io. Ma tornando a noi. La stavo
guardando intensamente negli occhi; piccoli, scuri, semi chiusi per l’eccitamento, incorniciati dagli
occhiali. Le mie mani si mossero di nuovo. Una andò verso la nuca, facendo in modo che le dita
fossero avvolte in quella nera giungla sinuosa di capelli, così da poter avvicinare il suo volto al mio;
l’altra invece afferrò di nuovo un fianco, per poi andare sotto i vestiti, curvare e scendere verso quel
culo morbido, rotondo e pieno senza neanche farsi fermare dalle mutandine. Quello che stavamo
facendo non era un bacio dolce e romantico, tutt’altro. Era uno di quei baci animaleschi, in cui uno
cerca di dominare l’altro, quasi dovesse mangiargli le labbra. E non avete idea di quanto le avrei
mangiate io: piccole, morbide, umide, potevo avvertirne la curvatura e, nel mentre, le lingue
turbinavano quasi come a lottare. La mano nei pantaloni invece era determinata a esplorare
completamente quel fantastico culo. Non era la prima volta che lo sentivo, ma ogni volta era
eccitante come quando ordini il tuo piatto preferito. Avrei potuto dirigere la mano verso la sua
rosellina ma no. Decisi che sarebbe stato più eccitante e divertente non darle la soddisfazione di
andarci subito, quanto piuttosto decisi di girarci intorno, facendo delle finte con le dite
avvicinandomi e tornando indietro. Questa cosa non durò molto. Improvvisamente lei interruppe il
bacio con una delle mie cose preferite. Mi morse il labbro inferiore, tenendolo con una presa leggera
ma determinata tra i suoi denti. Aprimmo gli occhi, il labbro ancora trattenuto, e vidi lei che mi
fissava con quel sorrisetto da stronza; era consapevole di quello che aveva appena fatto. Quella cosa
mi fece perdere completamente i freni. Fino a quel momento pensavo che ci saremmo un po’
stuzzicati, per poi concludere seriamente la sera in un luogo più appartato. La girai nuovamente,
facendole sentire con ancora più forza la pressione del mio cazzo ormai completamente duro sul
suo culo. Con la mano sinistra le afferrai il collo, così da tenerla ferma mentre tornavo a
mangiarglielo. La destra invece andò dritta nei pantaloni, scorrendo sulla pelle, superando calze e
mutandine per arrivare direttamente alla sua fighetta. Una fighetta fantastica. Piccola, rosa, con le
labbra appena sporgenti. Sentì subito che c’era qualcosa di diverso. Rispetto alle altre volte non era
ancora completamente bagnata, forse il fatto che c’erano dei ragazzi a pochi metri da noi, con solo
un muro neanche tanto isolante, la frenava un po’. Poco male pensai, la cosa si faceva più divertente.
Strinsi la mano sul collo e contemporaneamente affondai due dita nella sua figa calda e umida.
Lanciò un altro gemito trattenuto e la cosa non fece che eccitarmi ancora di più. Doveva averlo
capito visto che, con una manualità impressionante, mi slacciò i pantaloni quel tanto che bastava
per poter prendere in mano la mia asta. Iniziammo a masturbarci a vicenda. Io che le affondavo con
vemenza le dita nella figa che si stava bagnando sempre di più, e lei che lentamente massaggiava e
segava il mio cazzo. Quel round lo stavo vincendo io complice anche la posizione scomoda per lei,
ma anche per la forza con cui la stavo sditalinando. I suoi sospiri si facevano sempre più frequenti e
forti nel mio orecchio mentre la avvolgevo come un serpente con una preda. Capì che avevo fatto
un buon lavoro quando sentii una sensazione e un rumore che non lasciavano dubbi. Avevo le dita
completamente bagnate per la sua fica grondante. Era arrivato il momento. Le morsi il lobo
dell’orecchio e, nel mentre, con le mani le abbassai i pantaloni. Volevo leccargliela, sentire
quell’odore e quel sapore prima di affondarlo dentro. La feci appoggiare al muro vicino a noi e mi
misi in ginocchio davanti a quel fantastico culo, quasi fosse un quadro e io un critico che ne osservava
tutti i particolari. Quella forma rotonda e invitante, avvolta dalle calze semitrasparenti che
lasciavano tranquillamente vedere le mutandine sotto. Affondai completamente la faccia in quel
tesoro. Annusai a pieni polmoni. Un odore dolce e penetrante allo stesso tempo. Senza preavviso le
strappai le calze per creare un varco. “No…” disse piano piano sottovoce, con un tono da bambina,
ma che trasmetteva un invito più che un divieto. Scostati la mutandina e ammirai quello spettacolo
davanti a me. Come detto prima era piccola, rosa e con quelle piccole labbra invitanti, ma in più ora
grondava di quel nettare lucente che rifletteva la tenue luce. Mi fiondai senza mezzi termini e glie
la divorai. Ero affamato, ero arrivato alla portata principale. Andai con una tale vemenza che lei si
dovette coprire la bocca con una mano. Si girò verso di me, con la schiena al muro. Voleva guardarmi
mentre la mangiavo con vemenza. Occhi negli occhi, una regola teatrale che si rivelò molto
interessante anche in questo contesto. Sentivo i suoi fianchi contorcersi e agitarsi. Improvvisamente
la sua mano mi scostò la faccia da quel pasto e mi disse “Anche io ti prego”. Mi alzai in piedi, la baciai
per farle assaggiare un po’ del suo sapore e poi fu il suo turno di inginocchiarsi davanti a me. Lo
prese subito con quelle piccole mani, lo osservò per qualche secondo vogliosa e ipnotizzata, poi ci
si lanciò sopra. Ora ero io completamente nelle sue mani. Sorprendentemente lo aveva preso tutto
fino in gola, con la lingua lo avvolgeva e poi tornava a leccarmi la punta della cappella. Me lo stava
succhiando con una voglia tale che sarei potuto venire in qualunque momento. Dopo poco decisi
che era il momento. Le afferrai i capelli come fossero delle redini e la staccai lentamente dal mio
cazzo. Un filo perlaceo di saliva teneva ancora unita la mia cappella alla sua piccola e rossastra
lingua, lasciata fuori come un cagnolino assetato, e nel mentre mi guardava con gli occhietti vogliosi.
Dio quanto ero eccitato. La tirai su, la girai verso il muro facendola appoggiare con le mani e misi le
mani sui suoi fianchi. Lo affondai di forza, senza mezzi termini tanta era l’eccitazione. Questa volta
il gemito che si lasciò sfuggire era più forte. Per fortuna stavano parlando dall’altra parte e forse non
ci avevano sentito. Non potevo rischiare. Le misi una mano sulla bocca per evitare qualsiasi rumore.
Decisi anche di metterle un dito in bocca così che potesse morderlo nel mentre, giusto per rendere
la cosa più interessante. Come se prenderla da dietro mentre era messa a 90° appoggiata al muro
non fosse abbastanza. Inizia con degli affondi lenti e profondi, così da potermi gustare al massimo
quella fichetta stretta che mi avvolgeva e bagnava il cazzo. Il calore che potevo sentire dallo starle
dentro era quanto di più bello potesse esserci. Mano a mano che aumentavo il ritmo quella fica
diventava sempre più stretta e avvolgente. Ormai i miei affondi seguivano un ritmo veloce,
animalesco, quasi violento. Più stringeva più aumentavo il ritmo. Ormai il rumore predominante era
quello delle mie palle che sbattevano, bagnate, contro di lei; in sottofondo invece c’erano i suoi
orgasmi coperti e strozzati dalla mia mano. La sentivo tremare e agitarsi. Improvvisamente si alzò
sulle punte dei piedi, i fianchi le tremarono più forte di prima e cacciò un forte e prolungato gemito
che feci fatica a nascondere. Doveva essere venuta. Poco male visto che a breve avrei concluso
anche io, tanta era l’eccitazione. Poco dopo fu il mio turno. Preso dal momento non ci pensai, e
forse neanche mi importava. Le venni copiosamente dentro la figa calda e strettissima. Una di quelle
sborrate così forti che ti tremano le gambe e rendono difficile lo stare in piedi per qualche secondo.
Sentendosi riempire fece un sommesso “Mhhhhh” nel mentre dava un ultimo morsetto al mio dito
medio. Restammo fermi per qualche secondo, ansimanti, io ancora dentro di lei. Quando le sfilai il
cazzo dalla figa questi restarono attaccati per poco da un grosso e viscoso filo formato dal mio
sperma e dal suo dolce nettare. Dopo qualche altro secondo lei si girò di nuovo verso di me,
appoggiandosi con la schiena al muro. Era sudata, con il trucco intorno agli occhi parzialmente
rovinato, e i pantaloni calati che mostravano ancora attraverso il buco delle calze la figa gocciolante.
Respirava affannosamente. Anche io ancora con il cazzo parzialmente eretto e bagnato respiravo
affannosamente e la guardavo. Ci guardammo per un po’, senza dire una parola. Guardavamo gli
occhi dell’altro, studiavamo il corpo dell’altro. Non sapevo che dire o che fare. Decisi quindi di
infilare velocemente il pene nelle mutande, tirarmi su i pantaloni e me ne andai dal camerino. La
lasciai lì, parzialmente nuda. Con passo veloce tornai, senza farmi notare, alla console. Mi sedetti e
guardai fuori dalla finestra la pioggia che picchiettava sul vetro. Tirai un sospiro.
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