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Ricattata dal gioco (1)


di solisoli59
07.11.2022    |    1.209    |    1 9.6
"L’ ufficio di costui si trovava dall’altro lato della città, in via Enghien per l’appunto, proprio come il nome del casinò pensò mentre il taxi la portava..."
Irene de Sentier era una giocatrice ed una giocatrice molto apprezzata nei casinò perché perdeva regolarmente. Fino a quel momento era sempre riuscita a compensare quei periodi di scalogna, come ne conoscono tutti i frequentatori abituali di case da gioco, con vincite clamorose ottenute all’ultimo minuto quando ormai lei stessa non ci sperava più. Ma quel mattino, uscendo dal casinò d’ Enghien, provava la brutta sensazione che la sua buona stella fosse tramontata per sempre. In poche ore aveva in fatti perduto una somma enorme e non le era stata accordata che una settimana per onorare il debito.
Cinquantamila euro, e non poteva sperare neppure nell’aiuto di Edoardo, suo marito. Questi, funzionario del Ministero degli Esteri, conosceva bene la propensione di sua moglie peri il gioco. Era tuttavia mille miglia lontano dal sospettare le proporzioni che questa passione divorante aveva conquistato in lei: Irene aspettava solo che il marito facesse qualche viaggio di lavoro per immergersi nell’atmosfera inebriate delle sale da gioco e già una o due volte aveva perfino stornato, per fortuna senza che Edoardo se ne accorgesse, delle piccole somme dal conto del consorte per salvarsi da una “brutta situazione”.
Ora, seduta la volante della sua auto, la giovane donna riflette va velocemente alla ricerca di una possibile via di uscita. La faccenda non era rosea. In realtà non conosceva nessuno disposto a prestarle tutti quei soldi... soprattutto ad una giocatrice come lei e se, alla fine della settimana, non avesse onorato il suo debito, il casinò avrebbe inviato a suo marito l’impegno che aveva firmato. Accese nervosamente il motore. Non le restava che una soluzione. Vendere la sua collana di smeraldi. Era un regalo di Edoardo e lui ci teneva molto, ma era anche l’unico modo di evitare il peggio. Le sarebbe bastato inventarsi una storia qualsiasi, un furto, ecco! Era pronta a giurare che suo marito le avrebbe creduto...Ci mise circa mezz’ora per ritornare nel suo lussuoso apparta mento situato in uno dei quartieri più eleganti della capitale. Nicoletta, la donna di servizio, stava preparando la colazione in cucina così lei poté raggiungere la sua stanza senza farsi notare. Qui, sfinita dalla lunga notte di gioco, si spogliò e si mise sotto la doccia. Il contatto dell’acqua bollente, che le scivolava sulla pel le, riuscì a calmarla un poco. Tuttavia non indugiò a lungo: doveva ancora pensare a come vendere la collana ed il tempo stringeva. Trovare un acquirente per un prezioso del valore di cinquecentomila franchi, non era facile. Se si fosse rivolta ad un gioielliere autorizzato c’era il caso che questi volesse conoscerne la provenienza e magari contattare suo marito per informarlo del la cosa, un rischio che lei non poteva correre.
Drappeggiandosi l’asciugamano di spugna intorno alle reni, Irene tornò in camera da letto. Qui aprì una piccola cassaforte dissimulata dietro uno specchio a muro e, le lacrime agli occhi, ne estrasse l’astuccio che conteneva la preziosa collana. L’idea di doversene separare la faceva star male ma non aveva altra scelta. Davanti allo specchio si allacciò la collana. “Per l’ultima volta” pensò con un sospiro. Con la punta delle dita carezzò gli smeraldi, affascinata dal loro splendore. Poi la sua mano scese più in basso, seguendo il contorno dei seni, fino ai capezzoli bruni ancora induriti dal getto della doccia. Irene de Sentier era una di quelle donne alto borghesi apparentemente fredde ma che, uscite dai loro severi tailleur, rivelano un corpo dalle forme piene ed eccitanti. Automaticamente, posò l’indice sul capezzolo, al centro dell’ampia areola granulosa. Lo tolse però subito. Le era venuta un’idea...
Gilberta, una sua amica e vecchia complice nella passione per il gioco d’azzardo, le aveva parlato una volta di un usuraio pronto ad ogni tipo di losco traffico e più o meno specializzato in questo genere di transazioni con gente dell’alta società. Le aveva però anche raccomandato di non rivolgersi a costui se non in caso di estrema necessità.
“Vacci solo se proprio non puoi farne a meno... “ le aveva detto. “Quel tipo è un vero diavolo... “
Irene si ricordava benissimo di quel pomeriggio nel quale la sua amica, il volto disfatto, le aveva mormorato quella confidenza, mentre nei suoi occhi brillava come un segreto inconfessabile.
Irene non aveva cercato di saperne di più temendo di essere indiscreta. Gilberta sembrava sconvolta per la prova che aveva dovuto affrontare tanto da dimenticare, sul tavolo del salotto, il biglietto da visita con l’indirizzo dell’usuraio.
Irene aveva conservato quel biglietto dato che, d’abitudine, non buttava mai via niente. Andò a recuperarlo nel cassetto della scrivania, un rettangolo di carta ingiallito e spiegazzato come se fosse stato usato molte volte. Pensò a Gilberta. La sua disavventura le doveva essere servita di lezione. Da allora non aveva più giocato. “Se solo riuscissi a fare lo stesso...” si disse Irene mentre si toglieva la preziosa collana e la riponeva nell’astuccio.
In realtà non si faceva illusioni. Il demone del gioco la possedeva da quando era ancora una ragazzina ed il suo matrimonio, al l’età di vent’anni, con Edoardo, un alto funzionario del Ministero degli Esteri, due volte più anziano di lei, non aveva certo contribuito ad allontanarla dai casinò. Era questo, comunque, il suo unico vizio... la sua passione per la roulette, il black jack o le chemin de fer non si accompagnava ad altri eccessi e ciò poteva sorprendere in una giovane donna così seducente.., e, dati i frequenti viaggi del marito, spesso così sola. Infatti, appena soddisfatta la passione del gioco, Irene de Sentier tornava ad essere una signora borghese seria e riservata, quasi timida.
Quando, alle otto, la donna di servizio entrò in camera portando il vassoio della colazione, Irene aveva preso la sua decisione. Non le restava altro che rivolgersi a Bonsal, l’usuraio che aveva salvato la sua amica Gilberta dallo scandalo e dalla vergogna. L’ ufficio di costui si trovava dall’altro lato della città, in via Enghien per l’appunto, proprio come il nome del casinò pensò mentre il taxi la portava verso quel quartiere. Come tutti i giocatori d’azzardo, Irene era superstiziosa e vide in questa coincidenza un segno favorevole.
Si smontò un poco quando il taxi la depose davanti ad un portone, di fianco ad un caffè dall’aspetto poco raccomandabile, mentre sulla strada una folla cosmopolita sciamava disordinatamente in ogni direzione. Si trattava di un quartiere che le faceva paura e nel quale non veniva mai. Non le piacevano, infatti, quelle viuzze strette e cupe, quegli edifici dalle facciate cadenti, il modo con il quale gli uomini si voltavano al suo passaggio, una luce viziosa negli occhi. Con il suo tailleur scuro di grande sartoria ed il suo cappello con la veletta, tutti la notavano e lei aveva l’impressione di essere vulnerabile come un turista che si è perduto in un luogo malfamato di una città straniera. La presenza della preziosa collana di smeraldi nella sua borsa, che lei si stringeva forte al petto, non faceva che aumentare il suo disagio.
L’edificio dove viveva l’usuraio, in fondo ad una stradina dal selciato sconnesso, era ancora più sordido degli altri. Un terribile odore di orina e di bidoni di spazzatura non vuotati appestava la tromba delle scale. Al quarto piano Irene si arrestò davanti ad una porta sulla quale era appuntata una carta da visita identica a quel la dimenticata da Gilberta.
Esitò un istante prima di decidersi a suonare: venire a cercare la soluzione dei suoi problemi in un luogo simile le sembrava ridicolo e patetico. Era quasi sul punto di rinunciare quando la porta venne aperta da un ometto apparentemente senza età che indossa va un abito uso. Una corona di capelli grigi e arruffati inquadrava il suo volto insignificante. Alla vista della giovane donna l’uomo si raddrizzò leggermente.
“Sì?”
“Sono... sono venuta per vedere il signor... il signor Bonsal,” disse Irene con voce insicura.
L’uomo si fece da parte per farla entrare.
“Albert Bonsal sono io, in cosa le posso esserle utile, signora?” Sconcertata, la giovane donna guardò l’usuraio aprire una porta a vetri, sulla sinistra dell’ingresso e Io seguì senza rispondere in una stanza ingombra di pile di dossier polverosi, nella quale stagnava un odore acre di sudore e di mozziconi di sigaretta, restando in piedi davanti ad un divano mezzo sfondato mentre Bonsal si installava dietro la sua scrivania. A questo punto della faccenda dubitava ormai fortemente che costui potesse essere “l’uomo che l’avrebbe tirata fuori dai guai” di cui le aveva parlato Gilberta.
«”Dunque?”
Bonsal allungò il braccio ed accese una lampada posta vicino al telefono. In quella luce, il suo volto incavato prese un aspetto ancora più inquietante. Ci fu un lungo silenzio durante il quale Irene si chiese come mai non trovasse la forza di fuggire da quel sordido ufficio.
“Qualcuno mi ha parlato di lei... io... io avrei qualcosa da vendere. Un... un gioiello.”
Nervosamente, la donna estrasse l’astuccio dalla borsa e lo posò sulla scrivania. L’usuraio l’aprì ed un lieve sorriso si disegnò sul
sue labbra sottili.
“Bell’ articolo,» disse con tono di apprezzamento. La guardava con aria diffidente, «ma non è mia abitudine trattare affari con degli sconosciuti...”
“Mi chiamo Irene de Sentier,” disse lei abbassando gli occhi. “Mi manda un’amica: Gilberta della Roche-Barre...”
“In questo caso non c’è problema... se lei è un’amica di Gilberta...”
Con un movimento veloce, l’uomo afferrò la collana e si lasciò sfuggire un fischio di ammirazione. Estratta da una tasca una lente di ingrandimento esaminò a lungo ogni singolo smeraldo alla luce della lampada. Irene attendeva il verdetto con il fiato sospeso. Passarono secondi interminabili prima che l’uomo si decidesse a parlare.
“Trentamila, “ disse. “Posso darle trentamila euro .”
Irene impallidì.
“Ma come? Questa collana ne vale almeno due volte tanto!”
“Spiacente, cara signora, ma non posso fare di meglio. Ho delle spese... e poi ci sono le percentuali degli intermediari. Lei sa bene che questo genere di articolo non è assolutamente negoziabile nei circuiti normali. Almeno che si sappia chi lo ha venduto e perché...”
L’usuraio aveva insistito su queste ultime parole. Annichilita, Irene si lasciò cadere sul vecchio divano.
“Ascolti. I-Io bisogno di cinquantamila euro … immediatamente !”
Mentre parlava capì di avere fatto un enorme sbaglio. Ora Bonsal sapeva che lei era con le spalle al muro e un tipo come lui non si sarebbe fatta sfuggire l’occasione di approfittare di quel vantaggio. Era stata ingenua, presa com’era dal pensiero del suo debito! Sul punto di scoppiare in lacrime si rese conto che, entrando in quella casa, aveva rinunciato ad ogni dignità. Ormai era alla mercé di quel vecchio imbroglione.
“Certo, prendendo dei grossi rischi finanziari,” disse l’usuraio allargando le braccia, “potrei, eventualmente, arrivare a darle questa somma. A condizione, bene inteso, che lei sappia mostrarsi... altrettanto comprensiva. “
Irene gli lanciò uno sguardo fugace come se avesse paura di capire. Con un sorriso vizioso, l’usuraio fece il gesto di restituirle la collana.
“Altrimenti.., ho paura che sarà difficile mettersi d’accordo.”
Irene si sentì invadere dal panico. Gli occhi inchiodati sugli smeraldi che scintillavano nella mano di Bonsal, pensò al peggio. Se non fosse riuscita ad onorare il suo debito con il casinò, la cosa sarebbe diventata di dominio pubblico e un simile scandalo avrebbe rischiato di essere fatale alla carriera di suo marito. Lanciò al l’usuraio uno sguardo di supplica.
“La prego..”
“Senta, so bene che lei non sarebbe venuta a trovare il vecchio Bonsal se avesse potuto vendere legalmente questa collana...”
Mortificata, Irene abbassò gli occhi arrossendo.
“Mi dica... mi dica che tipo di accordo possiamo stipulare...»”
Il vecchio sogghignò.
“Questo plurale non mi piace, cara signora! Deve sapere che molte clienti come lei si sono fidate di me per risolvere i loro problemi. E non sono state deluse. Se posso dire, la loro soddisfazione è stata completa. Vede, al di là degli affari, è l’animo della donna che mi interessa. Lo scambio fra esseri umani, il baratto, per usare un’espressione un po’ volgare, non si trova forse alla base di una comprensione reciproca? Non è d’accorso anche lei che entrare nell’intimità del prossimo sia molto eccitante?”
Irene lo guardò stupita.
“Non sono certa di aver capito.”
“Se lei vuole avere da me la somma di cui sembra avere assolutamente bisogno deve accettare uno scambio.”
“Che genere di scambio?”
L’usuraio si lasciò sprofondare con aria soddisfatta nella poltrona.
“Diciamo... diciamo che mi piacerebbe conoscerla meglio. Un affare come quello che stiamo trattando richiede una certa complicità. ..”
Irene si raddrizzò leggermente, facendo sporgere malgrado se stessa il proprio seno opulento stretto nella giacca del tailleur.
“Sia più esplicito.”
Ma aveva capito perfettamente. Le gote in fiamme, allungò la mano per riprendere il gioiello. L’atteggiamento di questo vecchio disgustoso la scandalizzava ma si sforzò di restare calma.
“L’accordo è tuttavia molto chiaro cara signora,” disse l’usuraio senza restituirle la collana che teneva infilzata sul dito indice. “I soldi subito... ma ad una condizione. Durante le prossime ore lei sarà completamente a mia disposizione, completamente sotto messa alla mia volontà!” Irene non poté evitare un fremito ”Va da sé che il minimo accenno di disubbidienza da parte sua verrà considerato come una rottura del contratto. In questo caso mi vedrei costretto, anche se a malincuore, a restituirle la collana... e forse anche ad informare suo marito della faccenda.”
Irene vacillò sotto quella mazzata! Informare suo marito! Si sentiva in trappola. La collana continuava a pendere dal dito di Bonsal. No! Non era possibile. Questo genere di cose non poteva accadere. Non a lei, almeno...
Ci fu un lungo, opprimente silenzio. Irene si sentiva terribilmente vulnerabile. Ma aveva forse una via di scampo? Rossa di vergogna, la giovane donna si decise a parlare evitando, tuttavia, lo sguardo vizioso dell’usuraio.
“Supponiamo... supponiamo che dica... sì...”
L’uomo fece un risolino sarcastico.
“Supponiamo? Conosco questo modo di esprimersi del tutto ipocrita dell’alta società. Lei è una vera borghese, signora de Sentier... Comunque, se le fa piacere, immagino che si possa benissimo fare il gioco dei “supponiamo”.
Udendo la parola “gioco”, Irene avvertì un brivido attraversarle la schiena. Fra lei e l’usuraio si era ingaggiata una strana partita.
“Supponiamo dunque che lei dica di sì,» riprese Bonsal aprendo un cassetto della scrivania. “In questo caso le domanderei, come prima cosa, di togliersi il cappello...”
Un impercettibile tìc nervoso prese a deformare l’angolo della bocca di Irene. Con un gesto veloce si liberò del cappello e lo posò accanto a sé, sul vecchio divano. Intanto, l’uomo aveva di retto il fascio di luce della lampada sulla sua figura e la stava esaminando con la stessa intensità con la quale aveva osservato le pietre della collana. Le porse ora il foglio dattiloscritto che aveva preso dal cassetto della scrivania.
“... e poi di riempire questo questionario.”
Irene prese il foglio. La prima frase che lesse la fece arrossire di vergogna.
“Come può vedere,” disse Bonsal, “è sufficiente rispondere sì o no, facendo una croce sulla casella scelta. Prima, però, dovrà leggere le domande ad alta voce.”
Irene abbassò la testa, maledicendosi per non trovare il coraggio di insultare quel vecchio immondo.
“Lei è pazzo. Non posso farlo.., non posso rispondere a simili domande.., e meno ancora leggerle ad alta voce. Sono frasi oscene!”
“Lo so... ma è proprio sentire delle frasi oscene sulle sue belle labbra di distinta signora borghese che mi interessa. Lei lo sa che molte signore della sua stessa classe sociale trovano eccitante usare questo genere di espressioni quando...”
“La prego...”
L’usuraio fece un piccolo gesto di fastidio.
“Adesso basta giocare, signora de Sentier. Ubbidisca o esca di qui.”
Irene si morse le labbra. Come al tavolo da gioco, il momento cruciale era arrivato. Continuare la partita o passare la mano.
Come ogni volta che perdeva, Irene sentiva che le gambe le diventavano molli. Un formicolio ad un tempo spiacevole ed eccitante le attraversava il basso ventre. Accettando di leggere ad alta voce e di rispondere a quelle domande oscene sapeva di rinnegare quei valori che costituivano le basi stesse della sua esistenza. Ma, questa volta, doveva scegliere fra la morale.., e i soldi. Voltando la schiena all’usuraio, si appoggiò con il gomito alla scrivania e respirò profondamente. Poi, con voce insicura cominciò a leggere.
“I peli della oh mio Dio! I peli della sua fica sono molto folti?””
Piena di vergogna, Irene chiuse gli occhi mentre l’usuraio gongolava di soddisfazione.
“Vede bene che non è così difficile... Ma si giri verso di me. Voglio guardarla in faccia quando parla. “ Irene ubbidì restando tuttavia con gli occhi bassi per non incontrare lo sguardo vizioso di Bonsal. “Perfetto... assolutamente perfetto. La vergogna la renderà più affascinante, amica cara. Posi il foglio sulla scrivania adesso e faccia una croce sulla risposta giusta.”
Mortificata a morte, Irene prese la stilografica che lui le tende va mentre una grossa lacrima di umiliazione le scivolò sulla gota andando a bagnare l’odioso questionario. Con le mascelle serrate sottolineò la parola SI. Capiva adesso perché quel porco le avesse chiesto solo di leggere le domande. Da dove l’ometto si trovava, gli bastava sporgersi appena in avanti per vedere le risposte.
“Bene... molto bene. Passiamo alla domanda seguente...”
Irene fece uno sforzo disperato per pensare ai soldi e continuò la lettura.
“È vergine?” Questa domanda è assurda...”
“Non riguarda le donne sposate. Prosegua!”
“Ha... ha già succhiato l’uccello di un uomo? Oppure la...” oh, no!”
“Non risponda senza avere prima finito di leggere,” la rimproverò severamente l’usuraio.
“...la... la figa di una donna?” mormorò Irene con voce appena udibile affrettandosi a barrare la casella del NO per tutte e due le domande. Aveva fretta di mettere fine a quella tortura, adesso. Tuttavia, alla domanda seguente esitò di nuovo.
“Che succede, cara? Sarebbe, per caso, troppo eccitata per continuare a leggere?”
“Non sia ridicolo.”
L’usuraio ignorò il suo sguardo glaciale e le fece cenno di avvicinarsi come un vecchio professore vizioso chiamerebbe una giovane alunna alla lavagna per sbirciarla meglio.
“Ridicolo? Sarei pronto a scommettere il contrario.” Irene gli dette silenziosamente ragione. Era lei ad essere ridicola accettando di sottomettersi a quel questionario vergognoso. Fra loro, la collana di smeraldi brillava di una luce preziosa. Irene aggirò la scrivania con una smorfia di disprezzo sulle belle labbra. Intanto, l’usuraio aveva afferrato un tagliacarte e, con la punta, aveva cominciato a rialzarle l’orlo della stretta gonna fino a scoprirle la carne bianca delle cosce e l’elastico delle giarrettiere.
La giovane donna gemette di vergogna ma subì senza protesta re questa nuova oscenità. Le sembrava ormai impossibile sfuggi re alla propria definitiva umiliazione.
“Sì, mia cara... come le dicevo poco fa, sarei pronto a scommettere che la sua figa è molto pelosa e, in questo momento, anche molto bagnata.”
“Io...”
“No, non si muova. È molto eccitante in questa posizione... con il suo bel viso irato, il trucco leggero, l’impeccabile chignon... e, naturalmente, le giarrettiere.”
Si interruppe come per riprendere fiato. Respirava a fatica e Irene notò che la sua fronte era imperlata di sudore.
“Sì... soprattutto le giarrettiere,» sottolineò con un ghigno satanico.
Con un sorriso lascivo, l’usuraio le alzò la gonna ancora di qual che centimetro, scoprendo le mutandine di pizzo bianco. Istintivamente, Irene strinse le cosce ed inarcò le reni. Si pentiva amaramente di avere indossato quell’ indumento un po’ troppo trasparente che consentiva a quel porco di verificare che non aveva mentito.
«” peli del suo sesso sono veramente molto folti, mia cara. Le escono infatti da ogni lato delle sue affascinanti mutandine... può usarmi la gentilezza di aprire un po’ di più le gambe perché la possa esaminare meglio...”
“No... la prego...”
Lei trasalì sentendo la mano dell’uomo sfiorarle la pelle nuda, nell’incavo dell’inguine. Viziosamente, l’usuraio afferrò alcuni peli fra il pollice e l’indice e li strappò. Il dolore fu così forte che Irene non poté trattenere un grido.
“Le ho chiesto di aprire le gambe.”
Con la morte nell’anima, lei ubbidì. Il dolore era già scomparso lasciando posto ad un calore inquietante che, poco a poco, le conquistava il basso ventre. Lieto di vederla così docile, l’usuraio si piegò ad ispezionare attentamente l’interno delle sue cosce.
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