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Ricattata dal gioco (4)


di solisoli59
04.06.2023    |    882    |    1 9.5
"Tutto divenne confuso e lei sentì la verga dell’uomo affondare nelle pieghe umide del suo sesso spalancato..."
“Mi dica signora de Sentier, non ha ancora qualcosa da chiedermi?”
Irene alzò verso di lui uno sguardo stupito e vide che Bonsal sorrideva sadicamente. “Per quale motivo?” domandò.
“Che improvvisa insolenza, signora, così in contrasto con la sua tenuta... Le devo forse ricordare che se ne sta lì a culo nudo e tette all’aria?”
La giovane donna si strinse nelle spalle con aria stanca. Accennando ad un inchino, l’uomo allungò le mani, le afferrò i capezzoli e glieli tirò crudelmente costringendola ad alzarsi in piedi. Non senza terrore, Irene si accorse che il pene dell’usuraio aveva già ripreso una certa consistenza. Non era ancora del tutto dritto ma già oscillava minacciosamente fuori delle mutande... Venne spinta senza tanti complimenti verso il divano e costretta a mettersi in ginocchio, le mani posate sulla spalliera. Irene si lasciò sfuggire un gemito quando lui le infilò un dito fra le chiappe e poi, senza alcun sforzo, glielo piantò nell’ano.
“Non sente cara Irene? Entra tutto da solo.., la sua fighetta è così bagnata che anche il culo sembra di burro... credo addirittura che ci potrei mettere due dita. Vuole che provi?”
“Nooooohhhh….!”
“Andiamo, è inutile che lei guaisca come una volgare battona di periferia. Basta che mi chieda.., quello che il suo corpo implora dall’inizio della lezione...”
Senza smettere di sondarle il culo si piegò su di lei e le mormorò all’orecchio:
“Un cazzo... un grosso cazzo nella passera... è questo che vuole, non è vero signora de Sentier?”
Irene pensò ancora una volta alla sua collana di smeraldi. I suoi occhi si spalancarono come quando fissava la biglia di acciaio rotolare sulle caselle nere e rosse della roulette. Tutto divenne confuso e lei sentì la verga dell’uomo affondare nelle pieghe umide del suo sesso spalancato. Un rantolo le sfuggì dalla gola.
“Sìiiihhhhh…! Mi prenda... la supplico! Mi scopiiiii...”
Bonsal l’afferrò per i fianchi e l’impalò con un solo colpo. Lei vacillò dalla sorpresa, spaventata dalla grossezza di quel fallo. Il mostro si stava impossessando di lei, entrava ed usciva dalla sua figa con grandi rumori osceni.
“Noooohhh... non così forte.., non così! E disgustoso... lei mi sta violentando! “
L’uomo era troppo eccitato per prestarle attenzione. Tirandola per i fianchi la scopava furiosamente. Irene arcuò le reni. Il pene dell’usuraio era lunghissimo e lei se lo sentiva urtare contro il collo dell’utero.
A grandi colpi, rapidissimi, l’enorme uccello la spingeva verso l’orgasmo. Mentre la chiavava, l’usuraio le aveva afferrato i seni e glieli strizzava rudemente. Contro la sua volontà, il suo corpo rispondeva di istinto a quei movimenti.
“Lo senti tutto, eh, puttana?”
Con furia, l’usuraio le affondava il cazzo e poi lo ritirava per immergerlo di nuovo nella sua figa bavosa che si era enormemente allargata.
“Sìiihhh! sìiii!”
“La tua grossa sorca non aspettava altro... non è vero porcona? - Ploc... ploc...ploc…. - non lo senti che rumore osceno fa il mio uccello mentre ti fotto...? ti sta entrando nella figa come nel burro!”
“Sìiii! sìiiii!”
La voce di Irene non era più che un gemito. Sentendo avvicinarsi l’orgasmo, Bonsal accelerò il ritmo pistonandola con tale vigore che la giovane donna crollò contro la spalliera del divano. Le reni le facevano male. Contraendo le cosce dal piacere, sporse, nonostante tutto, le natiche all’indietro per impalarsi meglio su quel tubo di carne. Mai... mai aveva provato delle sensazioni così bestiali. Danzava sull’uccello dell’usuraio, sconvolta da un orgasmo osceno.
All’ improvviso si immobilizzò, la bocca spalancata e in quello stesso istante, Bonsal riversò tutto il suo sperma nel fondo della sua figa... Irene ebbe l’impressione che un fiotto di vergogna la sommergesse...

La donna cominciò a rivestirsi in un silenzio glaciale e quel lungo momento di silenzio fu per lei la più umiliante delle punizioni. Sentiva lo sguardo vizioso dei due sulla sua pelle nuda. Adesso era anche lei una viziosa. Ma no... non era vero! Avrebbe dimenticato tutto. Questo incubo orribile sarebbe stato cancellato dalla sua mente non appena fosse tornata nel suo mondo.
Poco importava anche quello che quei due pervertiti l’avevano costretta a fare... dopo essere stata chiavata. Aveva infatti dovuto masturbarsi davanti a loro.
“Con tutte e due le mani, signora,” aveva precisato la segretaria frustandola sulle natiche con una cintura per costringerla ad ubbidire più in fretta. Una richiesta alla quelle Irene si era piegata senza discutere, ormai completamente sottomessa.., vinta. Si era spalancata la vulva, aveva esibito la clitoride, infilato due dita nella fenditura bagnata. Aveva anche provato a barare, mimando l’orgasmo con le labbra, come sapeva fare così bene con suo marito, ma la sua commedia non era sfuggita allo sguardo acuto di quella puttana di Mirella.
“Ti è stato ordinato di masturbarti, troia, non di esibirti in uno spettacolo dì sesso! Avanti, viziosa.., toccati la clitoride... e mettiti anche un dito nel culo.., se non le dispiace, signora!”
Con le cosce che le tramavano, lei aveva ubbidito infilandosi il dito nel buchetto del sedere, mentre si sentiva morire dalla vergogna, ma anche sommergere da un orgasmo inatteso, violentissimo e incontrollabile...
Adesso era tornata se stessa. Era tornata ad essere Irene de Sentier, moglie di un importante diplomatico e poteva permettersi di ignorare lo sguardo dell’usuraio che la fissava mentre lei si infilava la gonna. Si sentiva insozzata, certo, ma ancora orgogliosa...
Dopo essersi rimessa la giacca del tailleur si piegò per raccogliere le mutandine dal pavimento polveroso ma la voce di Bonsal la gelò.
“Non così in fretta, signora de Sentier.. .”
Lei gli lanciò uno sguardo diffidente e l’odioso usuraio le rispose con una risatina ironica agitando la mazzetta delle banco note.
“Le sue mutandine le voglio io.”
“se le basta questo per farle piacere...”
Con una smorfia di disprezzo, gettò l’indumento sul ripiano della scrivania, accanto alla collana di smeraldi.
“Per il personale!” disse amaramente usando l’espressione abituale di chi vince al tavolo da gioco.
Bonsal fece un piccolo cenno con il capo come se apprezzasse quel gesto. Poi fissandola di nuovo con uno sguardo ironico disse: “Si avvicini.., e appoggi le sue natiche sul bordo della scrivania, cara la mia viziosa. Perché lei è proprio una viziosa, non è vero?”
“Va bene lo sono,” rispose lei andando a sedersi sull’angolo del ripiano, senza tuttavia perdere di vista la segretaria intenta a sistemare le mazzette di denaro nella sua borsetta. Il vecchio usuraio gongolò tutto soddisfatto.
“Allora me lo faccia vedere, signora de Sentier. Si tiri su la gonna e... mi mostri la fica.”
Completamente domata, Irene aprì le cosce per quanto la stretta gonna glielo consentiva e poi sorrise cinicamente quando l’usuraio le toccò la fessura tirandone le labbra dilato per dilatare l’orifizio della vagina.
“Vedo che ha smesso di ribellarsi, cara signora! Ma certo, così vanno le cose. Ci si denuda la fica... la si apre per bene... perfetto. Immagino che nessuno del suo ambiente abbia mai osato dirle che ha una sorca di notevoli dimensioni!”
“Esattamente!” fece lei accentuando di proposito l’inflessione del suo accento alto borghese. “Sì... una sorca molto grossa, a pensarci bene la si potrebbe usare anche come cassaforte!”
Mordendosi le labbra, Irene guardò l’usuraio arrotolare la mazzetta di biglietti di banca che aveva tenuto in mano. Qual porco non avrebbe osato...!
“Ed è proprio lì dentro che li infileremo...”
“Nooooohhh... “ fece lei incredula.
“Ultima clausola del contratto... pagare la puttana prima che se ne vada.”
Irene arcuò le reni pallida per l’umiliazione e la mano di Bonsal sparì sotto la sua gonna spingendo poi il rotolo di banconote dentro la sua figa. Suo malgrado si alzò sulla punta dei piedi per favorire quella oscena immissione. Sentiva che il rotolo risaliva dentro le sue carni come un mostruoso tampone igienico e fece una smorfia di dolore. Alla fine l’usuraio le richiuse la passera stringendogliela fra due dita, poi, con un’altra delle sue odiose risatine le porse la borsetta dicendole:
“Qui, come ha visto, c’è il resto della somma pattuita. Quanto alle banconote che le ho infilato nel sesso, le proibisco, mi sente bene, le proibisco tassativamente di estrarle prima di arrivare a casa. Voglio che lei assapori ancora un po’ il piacere della somma che ha guadagnata con la sua passera, dato che è per mezzo di lei che l’ha guadagnata.”
“Lei è un..un….maledetto bastardo.”
L’usuraio fece un gesto seccato.
“Mi scusi signora se non la riaccompagno alla porta ma è già molto tardi e mi resta parecchio lavoro da fare.”
Ferita nel profondo, Irene gettò all’usuraio uno sguardo di disprezzo. Senza più guardarla, l’ometto si era di nuovo sprofondato nella sua poltrona ed aveva aperto un dossier polveroso. Dopo tutto ciò che era accaduto, la congedava come l’ultima delle domestiche. Comunque fosse ora poteva finalmente andarsene. Si avviò verso la porta ma, prima di varcare la soglia, la voce di Bonsal la fermò.
“Non si dimentica qualcosa? Grazie... mi aspetto che lei mi dica grazie, cara Irene.”
La giovane borghese spinse in avanti il petto con arroganza. Un sorriso insolito le aleggiava sulle labbra.
“Certo, perché no. Grazie... grazie signor Bonsal !”
Nonostante la dolorosa sensazione di bruciore che l’enorme rotolo di banconote, infilato nella sua vagina, le procurava, Irene divorò le scale di corsa e traversò il cortile mal pavimentato imprecando ogni volta che i suoi tacchi la facevano inciampare sulle pietre sconnesse.
Dopo aver superato il portone di ingresso dell’edificio si ritrovò di colpo immersa nel mondo reale, quello della gente che camminava sui marciapiedi e delle auto che sfrecciavano sull’asfalto. Con le gambe molli e l’angoscia che le divorava il ventre, si appoggiò al muro di una casa cercando di riprendere fiato. Era così pallida che un passante si fermò e le toccò un braccio.
“Non si sente bene, signora?”
Lei sussultò così violentemente che l’uomo, temendo di andare incontro a delle noie, si affrettò ad allontanarsi. Con il cuore in tumulto, Irene alzò gli occhi al cielo ma non incontrò che il triste profilo di un immobile vetusto mentre, accanto, un altro immobile era in stato di avanzata demolizione. Un po’ più lontano, per fortuna, scorse le luci rassicuranti di un bar tabacchi.
Più i minuti passavano e più la sua vagina martirizzata la faceva
soffrire. Il rotolo delle banconote si stava srotolando poco a poco dentro il suo ventre, premendo contro le pareti e procurandole fitte di dolore ad ogni movimento. Bisognava che se ne liberasse immediatamente. Con passo esitante, si diresse verso il caffè. Gli ultimi metri furono un vero supplizio. A stento si rese conto, aprendo la porta del locale fumoso, del parlottio dei numerosi clienti. Con le tempie martellanti si avvicinò al banco e vi si aggrappò disperata nel l’attesa che il proprietario, un omaccione baffuto dai capelli impomatati, che parlava con un avventore, sì degnasse dì prestarle attenzione. «Dove.., dove si trova il bagno?» mormorò a fatica.
L’uomo la osservò con aria piena di sospetto. Lo specchio che correva lungo la parete fece prendere ad Irene coscienza dello stato pietoso in cui si trovava. I capelli disfatti le ricadevano, in grumi umidicci, sugli occhi febbricitanti ed il suo volto, bianco come il gesso, luccicava di sudore. Uno spettacolo veramente pietoso.
«E cosa vuole da bere, signora?» chiese l’uomo come se questa fosse la pre condizione per accedere alla toilette.
«Un caffè, per favore!»
«Il bagno è nel seminterrato.»
L’uomo aveva parlato a voce alta, intenzionalmente, e lei avvertì gli sguardi dei presenti convergere su di lei. Con le gote cremisi per la vergogna, attraversò la sala sforzandosi di tenere gli occhi fissi davanti a sé. Per colpa di quel porco tutta quella gente avrebbe immaginato la signora borghese che andava a fare la pipì! Si sentiva osservata in modo osceno come se si fosse potuto indovinare che aveva lasciato le mutandine nello studio dell’usuraio.
E poi chi poteva mai dire! Uno degli avventori avrebbe potuto spingersi anche a seguirla nel seminterrato ed incollare l’orecchio alla porta con l’intento di udire qualche rumore sconcio per raccontarlo agli altri ubriaconi del bar!
Rabbrividendo, Irene si chiuse nella toilette. Il luogo era disgustoso, con le pareti coperte di osceni graffiti.
Senza perdere tempo, la giovane donna si accucciò sul pavimento umido cercando di ignorare l’odore ripugnante di orina che pervadeva l’ambiente. Con la punta delle dita si aprì la vulva congestionata e poi si contorse cercando di dilatare la vagina nella speranza di espellere i biglietti. Non ottenendo alcun risultato cominciò allora a spingere con i muscoli addominali ma l’enorme tampone era situato così in fondo che anche questo tentativo fallì. Allora, a malincuore, si decise ad infilarsi le dita nell’orifizio caldo e umido di umori. Un brivido di piacere la scosse.
Era disgustata di se stessa per provare simili sensazioni in un luogo così sordido ma cercò di soffocare quella vergogna. Con i polpastrelli poteva sfiorare il rotolo delle banconote in fondo alla sua cavità vaginale orribilmente dilatata.., ma senza poterlo afferrare. Scoraggiata, si mise a maledire l’usuraio ad alta voce, si asciugò il sudore che le imperlava la fronte con il dorso della mano e poi, con una smorfia, ricominciò da capo. Questa volta, le sue unghie arrivarono ad uncinare qualche biglietto che lei, con precauzione, si estirpò dalla fica, facendo bene attenzione a non lacerarlo. Il sudore le inondava il viso e si sentiva soffocare.
Fu un lavoro lungo e penoso. Con una pazienza infinita, le sue dita tornarono ad agganciare i biglietti, all’interno della sua vulva che si bagnava sempre di più, estraendoli a due o a tre. Soffriva un vero martirio ogni volta che ritirava le dita perché le pareti della vagina erano irritate. Nello stesso tempo, però, un desiderio malsano di masturbarsi in quel luogo osceno le procurava un piacere infame. Alla fine, con un sospiro di sollievo, riuscì ad afferrare il resto del rotolo ed a tirarlo fuori dall’orifizio.
Restò un istante immobile a contemplare, con aria inebetita, quel grosso pacco di banconote spiegazzate e inzuppate di un liquido isto di umori e sperma. Non riusciva a capacitarsi come una fessura così stretta come la vagina di una donna potesse contenere un ingombro così massiccio. Era quasi... eccitante. Ebbe come un brivido alla vista della sua passera impudicamente spalancata che, nella posizione carponi in cui si trovava, lasciava fuoriuscire la punta eretta della clitoride. Ebbe l’impulso violento di accarezzarsi.
Ma riuscì a dominarsi e si rimise piedi infilandosi nervosa mente i biglietti di banca nella borsetta. Questa volta, l’orrendo incubo era veramente finito. Dopo essersi rimessa un po’ in ordine, riguadagnò la sala superiore e, ignorando gli sguardi dei clienti, pagò il suo caffè senza neppure accostare le labbra alla tazzina. Fuori ebbe la fortuna di trovare subito un taxi.
Mentre dava il proprio indirizzo al tassista provò la fuggitiva illusione di essere tornata se stessa, un illusione che non durò a lungo. Mentre il taxi correva, la giovane donna non riusciva a scollarsi di dosso una sensazione di sporcizia che pareva essersi attaccato alla sua pelle. Gli sembrava addirittura che il tassista, dal modo in cui la fissava dallo specchietto retrovisore, sentisse anche lui l’odore che il suo corpo emanava, un odore di femmina che si è appena fatta scopare. Ne era così angustiata che, temendo di incontrare un vicino nell’ascensore, usò la scala di servizio per tornare nel proprio appartamento. Era tardi e Nicole, la vecchia domestica, si era già ritirata nella sua stanza nella mansarda. Andò subito in bagno, aprì i rubinetti della vasca e si spogliò. L’acqua, bruciante e profumata, deterse il suo corpo dalle tracce immonde dello sperma. A lungo lei si insaponò la vulva martoriata e l’interno delle cosce doloranti. Ma la sensazione di sporcizia non svanì e le restò attaccata sotto la pelle sorniona e disgustosa. Seduta sul bordo del letto, si mise a piangere ma le lacrime non mutarono la situazione.
Comprese, allora, che per lei le cose non sarebbero più state come prima ed a confermare a se stessa questa sensazione, si scostò i bordi della vestaglia di seta e si toccò i peli umidi del pube. La vulva le faceva ancora male e lei passò e ripassò leggermente il dito fra le labbra arrossate, trattenendo il respiro. Ogni volta, uno spasmo doloroso la costringeva a contrarre le reni. Ogni volta, i suoi grossi seni oscillavano sul busto. Era la sua maniera di punirsi per ciò che aveva fatto. Chiuse gli occhi e le immagini oscene appena vissute le tornarono alla mente. Come in una grande onda venne invasa dal ricordo lancinante delle carezze, dei palpeggiamenti, delle umiliazioni, del piacere ignobile che aveva provato.., del sordido stupro che aveva subito. Come aveva potuto accettare di sottomettersi alle sadiche richieste di quel vecchio perverso? Il denaro non spiegava tutto.
Mentre si faceva questi rimproveri, continuava a toccarsi la vulva. Aveva preso un tubo di crema ammorbidente dal cassetto del comodino e se ne spalmò un poco sulla carne congestionata. Era così bagnata là dentro che le dita le sprofondavano nella passera come nel burro. Ipocritamente, faceva finta di non accorgersene. Cominciò a sospirare mentre, automaticamente, con un polpastrello si trovò la clitoride e prese a massaggiarla. Onde di voluttà le fecero tremare il ventre. Non riuscendo più a resistere si infilò due dita nella fica fino alle nocche e l’orgasmo la scosse.
Irene godeva sempre in silenzio quando si masturbava perché si vergognava di quei momenti di debolezza quando era costretta a cedere a questa pulsione bestiale. Quegli orgasmi solitari si accompagnavano sempre ad una punta di rimorso. Per colpa di Edoardo, certamente, che aveva venti anni più di lei ed era così spesso assente. “Troppo spesso,” pensò Irene con un sospiro mentre allontanava le dita dalla vulva e si stringeva, con un fremito, nell’accappatoio di seta. Sì, senza dubbio, suo marito aveva la sua parte di responsabilità. In fondo, tutto ciò Irene lo aveva sempre saputo.
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