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Patrizia e il gioco


di Dreamfree
03.04.2024    |    19    |    0 6.0
"Non sapevo ancora come e quando farle la sorpresa ma avrei creato sicuramente una situazione che mi avrebbe permesso di giocare come volevo fare..."
Patrizia e il gioco
Arrivai a casa da Amsterdam stanchissimo una domenica notte di fine agosto. Le code in autostrada ci avevano fatto fare un ritardo di oltre 4 ore. Nonostante tutto riuscii a dormire pochissimo per l’eccitazione che avevo da due giorni a quella parte. Avevo un regalo particolare per Patrizia ma anche per me. Non sapevo ancora come e quando farle la sorpresa ma avrei creato sicuramente una situazione che mi avrebbe permesso di giocare come volevo fare.
Avevo due giorni di riposo perchè poi sarei partito 5 giorni per Lourdes. Andavo sempre molto volentieri a Lourdes, si era creato un bel giro di conoscenze e divertimento, al di fuori dell’area religiosa.
Lunedì a metà mattinata telefonai a Patrizia sicuro che non avrebbero risposto i suoi genitori perché sarebbero stati al lavoro. Le chiesi se ci saremmo visti nel pomeriggio e la risposta fu naturalmente positiva, era dalla storia di Lavagna (un mese) che non ci vedevamo e lei era anche stata quindici giorni in vacanza con i suoi. L’appuntamento era al solito bar del paesello nel tardo pomeriggio per l’aperitivo. Non dovevo dirle come vestirsi, mi andava bene il suo stile soft punk, mi piaceva com’era, ma la invitai a portare il “chiodo” perchè saremmo andati in moto.
Alle 18 puntuale arrivai al bar. Io ero abbastanza monotematico come abbigliamento, ma quel giorno avevo un paio di pantaloni di pelle neri che avevo comprato in Camargue e cintura borchiata risalente ai miei 15 anni. Avevo deciso di non mettere le mutande. Mi piace molto ancora oggi sentire il cazzo che ad ogni movimento si strofina nei pantaloni soprattutto se di pelle. Stivali da motociclista con fibbia laterale, parte superiore di una vecchia tuta da moto in pelle nera con finiture bianco sporco, e sotto una T shirt bianca e un foulard con bandiera americana.
Lei odiava i pantaloni, aveva bisogno di sentire l’aria che si infilava sotto la gonna, su questo non avevo dubbi. Infatti indossava una gonna corta ma non troppo tartan grigio e nero con una catenella cromata intorno alla vita, i collant neri strappati a buchi e gli immancabili anfibi, la maglia nera di un gruppo metal e il “chiodo” in pelle rosso in mano. Diverso dal solito spiccava un rossetto nero e le unghie uguali, come neri erano i capelli sul lato che erano più lunghi, mentre sul lato più corto erano biondi, inoltre sfoggiava un bel colore bronzo da abbronzatura che la rendeva molto selvaggia.
Misi la moto sul cavalletto, mi corse incontro, mi baciò di sfuggita sulle labbra alzandosi in punta di piedi, mi piaceva molto il fatto che si alzasse sulla punta dei piedi per arrivare a me, “Sono senza mutande” mi sussurrò all’orecchio felicissima. “Anch’io” risposi. Un brivido di eccitazione mi pervase. “Sarai punita anche per questo” dissi e la baciai. “Sto ancora aspettando le punizioni dalle altre volte” affermò stringendo gli occhi con aria di sfida come faceva ogni volta che si parlava di punizioni. Mi era stato facile provocarla, ancora non sapeva che questa volta sarebbe stata quella buona.
Ordinai due negroni i quali arrivarono con un piattino di quadretti di pizza e due ciotole di patatine e olive. Non volevo stare lì, fremevo dalla voglia di mettere in pratica il mio piano. Proposi di andare in birreria per cena, così dal telefono pubblico del bar chiamò a casa per dire che avrebbe cenato fuori. Sentivo da un metro di distanza sua madre che dall’altra parte del telefono gridava “Fai quello che vuoi, poi quando arriva tuo padre vedi che ridere” e riattaccò. Mi guardò come dire “Guarda cosa sto facendo per te, probabilmente le prenderò di nuovo, ma non me ne frega un cazzo” e si lasciò scappare una risatina. Lei non lo sapeva ma il mio piano prevedeva che si andasse al monolocale per il gioco di quella sera. Salimmo in moto e partimmo. Decisi di saltare la cena e tirai dritto davanti alla birreria, in fondo non ci interessava mangiare, ci interessava fare sesso, magari bere, ma quello c’era da me. Iniziai a tirare con la moto per arrivare velocemente a casa, erano quasi 50 km ma in moto si faceva presto. Pensavo a quella maiala senza le mutande che stava fregando la figa bagnata sulla sella, ebbi un’erezione e così restò fino a casa. Entrai dal cancello aperto, percorsi il vialetto ed arrivai nel cortile che fungeva da parcheggio dell’edificio e parcheggiai la moto sotto la tettoia nel mio posto assegnato. “Dove siamo?” chiese. “Al monolocale” risposi. Spalancò la bocca e gli occhi in segno di stupore. Gliene avevo già parlato vagamente ma probabilmente non ci aveva creduto troppo. Si trattava di una vecchia cascina enorme con forma ad U della quale un lato era già stato ristrutturato, mentre la parte frontale e di testata erano ancora un cantiere. L’edificio era alto due piani più mansarda, lungo una trentina di metri con due torri semicircolari vetrate dove all’interno vi erano le scale per i piani superiori. In mansarda vi erano tre alloggi di cui uno grande tra le due torri e due monolocali agli estremi destro e sinistro dell’edificio. Io abitavo quello di destra. Sotto di me qualcuno aveva comprato entrambi gli appartamenti per fare un’abitazione su due piani ma in realtà era ancora disabitato, sull’altro lato, la torre della scala mi divideva dagli altri quattro alloggi che erano abitati. Non avevo paura di fare casino, nessuno avrebbe sentito. Salimmo la scala fino alla mansarda ed aprii la porta. Un paio di metri di corridoio d’ingresso, poi a destra la stanza si allargava di un altro paio di metri dove si trovava la porta del bagno ed una grande finestra vetrata di tre metri che si apriva a scorrimento sovrapponendosi una all’altra e permettendo così di accedere ad un balcone. Davanti al finestrone avevo messo un pesante tendone come avevo visto nelle abitazioni del nord Europa. Frontalmente invece la parete era occupata da un angolo cottura di tre metri e davanti ad esso un tavolo rotondo e quattro sedie, il tutto in stile moderno. Sulla sinistra invece si apriva l’area notte. Sulla parete in fondo si trovava un letto matrimoniale con una mensola dietro, in stile camera d’albergo, che faceva il giro allungandosi anche sulla parete di destra sulla quale si trovava una finestra ovale per poi terminare con una penisola con sopra una grande TV a tubo catodico. Dietro al letto avevo messo una gigantografia a parete con la veduta aerea notturna di New York, sulla sinistra invece un grande specchio di tre metri scorrevole nascondeva un capiente armadio. Ancora più a sinistra, adiacente al corridoio di ingresso una porta chiudeva uno sgabuzzino di circa un metro per due. Un grosso tappeto a pelo lungo di due metri per tre si trovava in centro al monolocale. L’illuminazione era tutta a parete. Sul soffitto al centro del locale correva un grande tronco distaccato dal vertice del tetto mentre altre travi più piccole andavano da una parte all’altra della stanza definendo le falde discendenti del tetto, rivestito di legno perlinato, passando da un’altezza centrale di 3,5 metri e scendendo fino a 2,50 metri sulla parete dietro al letto e quella del finestrone. Ed è proprio intorno a quel tronco al centro della stanza che in mattinata avevo fissato una catena penzolante la quale si poteva regolare in altezza agganciando dei moschettoni da scalatore alle varie maglie.
Entrammo e lei rimase estasiata dal mio “nido” ma soprattutto dal fatto di essere in un posto tranquillo invece che in luoghi improvvisati come sempre. Togliemmo le giacche di pelle e le gettammo sul tavolo, lei tentò di avvicinarsi per baciarmi ma la tenni lontana allungando il braccio e respingendola con la mano. Accesi lo stereo con una cassetta 120 minuti di brani psichedelici che avevo già preparato in ordine ritmico crescente. Da una bottiglia già aperta riempii due bicchieri di Porto comprato a Lisbona, bevemmo d’un fiato e intanto che lei ne versava altri due, io mi toglievo il foulard e la T-shirt bianca rimanendo a torso nudo. Aprii uno zainetto poggiato su una sedia ed estrassi due bracciali in cuoio con fissato un anello in metallo ed una frusta con molte frange di pelle lunghe quasi un metro acquistati in un sexy shop ad Amsterdam ed andai verso di lei. Mi guardo strizzando gli occhi in senso di sfida, aveva capito. Finì in un sorso il secondo bicchiere di Porto che aveva già in mano. Mi avvicinai, le sfilai la T-shirt nera con scritto Black Sabbath e rimase a seno nudo con il segno evidente di abbronzatura del costume a due pezzi. Mi porse i polsi. Senza distaccare gli occhi dai suoi misi il primo bracciale chiudendo la fibbia, poi misi il secondo. Avevo il cazzo duro già da un pezzo per l’eccitazione e sicuramente lei non era meno eccitata di me. “Stasera paghi il conto” le dissi. Lei senza parlare continuò a guardarmi seria in segno di sfida. La portai in centro stanza, abbassai la catena penzolante fissata alla trave, presi il moschettone da scalatore fissato all’ultima maglia della catena e vi agganciai gli anelli dei bracciali, misi in tiro la catena in modo che rimanesse con le braccia alzate sopra la testa e la bloccai in quella posizione. Bevvi il mio Porto che lei aveva versato.
Le andai di fronte ed iniziai a provocarla danzando al ritmo di Gloria dei Doors scimmiottando Jim Morrison e dandole dei finti baci, mordendola sulle labbra, sulle palpebre, sulle orecchie mentre lei cercava di incontrare la mia bocca. Misi la frusta tra la mia bocca e la sua mentre lei continuava a guardarmi con aria di sfida. Le passai le lunghe frange sul seno e vidi i capezzoli inturgidirsi. “Sono trenta” disse fredda con voce alta e tono imperativo, come ad incitarmi a procedere.
Mi portai dietro di lei, mi diedi un colpo sulla schiena per provare la forza ed il secondo lo feci cadere delicatamente verticale tra le sue scapole. “Uno” disse. Ne calai un altro leggermente più forte “Due… Mio padre fa di meglio” aggiunse sempre ad alta voce. Mi sentii sfidato, così il terzo lo sferzai da destra verso sinistra incrementando ancora la forza. “Tre”. Il tono che usò era quasi annoiato e mi fece capire che dovevo impegnarmi di più, ma soprattutto non dovevo sprecare l’occasione. Entrambi ci aspettavamo altro. In realtà non l’avevo mai fatto ed avevo paura di farle male. Mi avvicinai all’orecchio e le dissi “E’ solo un gioco, se ti faccio male fermami”. Non rispose, mi allontanai di un metro, provai nuovamente un colpo sulla mia schiena poi caricai il braccio e scaricai con forza un colpo che la avvolse colpendo anche il seno. Sentii un lieve lamento: “Ah.. quattro” disse. “Questa l’ha sentita” pensai ma siccome non disse niente decisi di replicare. Caricai il braccio e giù un altro colpo secco come il precedente “Ah.. cinque” disse a voce più bassa inarcando leggermente la schiena e pronunciando un gemito. Decisi di arrivare a dieci senza dargli tregua. Caricai un colpo e lo sferrai. “Sei”, caricai subito un altro e giù, “Sette”, e di nuovo, “Otto”, ancora, “Nove” disse, inarcando la schiena e subito dopo sferzai un colpo fortissimo che la fece sbandierare appesa alla catena. “Aaah.. dieci”.
La schiena iniziava ad arrossarsi, la musica a basso volume, mi permetteva di sentire lo schiocco delle frange che si abbattevano sulla pelle nuda e l’eccitazione mi faceva scoppiare il cazzo nei pantaloni.
Mi avvicinai, passai una mano sulla schiena soffermandomi con le dita sulle striature lasciate dalle frange di pelle. Mi portai davanti a lei e vidi l’arrossamento dei colpi arrivati fino su un seno bianco. Mi guardò e disse “Fa più male mio padre”. Suo padre usa la cintura dei pantaloni che è più larga e più spessa pensai, però la frusta vestita, pensai. Effettivamente quei nastrini di pelle erano un pò leggeri perchè procurassero dolore vero.
Mi venne in mente un film western che avevo visto in una TV spagnola dove il boia teneva la frusta a bagno in un secchio. Andai in bagno, misi la frusta nel lavandino, chiusi il tappo e lo riempii d’acqua. Tornai da lei, le sfilai la gonna, le strappai le calze già bucate e rimase con il sesso nudo e gli anfibi. Tornai in bagno, presi la frusta e la strizzai tra le mani, mi misi nuovamente alle sue spalle, caricai il braccio e le sferrai un colpo fortissimo. Venne avvolta dalla frusta la quale ritraendosi la fece roteare verso di me. Fece un grido di dolore, mi guardò negli occhi e disse “Undici” stringendo i denti. Alzai e giù un altro colpo sul seno. “Dodici”. Il cazzo mi stava esplodendo, la cappella ad ogni movimento fregava all’interno dei pantaloni tanto che credevo di venire da un momento all’altro, alzai ancora il braccio e giù con forza altri tre colpi consecutivi. “Tredici”, “Quattordici”, “Quindici”. Ad ogni colpo strizzando gli occhi si alzava in punta di piedi gridando il numero a denti stretti e dalla sua espressione e dai lamenti capii che le stavo facendo male. “Tutto ok?” chiesi. Aprì gli occhi e disse in segno di sfida: “Erano trenta” disse. Mi incazzai talmente tanto che iniziai a colpirla ripetutamente senza sosta. La schiena ed il seno erano rossi lucidi, bagnati dal sudore e dall’acqua di cui la frusta era intrisa. Sui fianchi erano comparsi dei punti viola dove le punte delle strisce di pelle della frusta colpivano, ma non importava, lo aveva chiesto lei. “Sedici” disse. La frusta la riavvolse e la rigirò nuovamente di schiena. “Diciassette”, “Diciotto”, “Diciannove”, “Venti”. Sferrati con cadenza veloce e con forza. Con il fiatone le andai davanti per vedere su tutto era ok. “Ancora dieci” disse con voce bassa mentre ansimava vistosamente. Tornai in bagno immersi nuovamente la frusta nel lavandino e la strizzai, tornai da lei, alzai il braccio, lei strinse gli occhi in attesa del colpo che puntuale e preciso le sferzò il seno da destra a sinistra facendolo ballonzolare leggermente, “Ah.. ventuno” disse, mi spostai su un lato e la colpii con forza sulla schiena, “Ah ventidue”, mi spostai nuovamente, questa volta dietro di lei e giù un’altro colpo sul fianco fino a raggiungere il seno, “Aaah ventitre”. La frusta bagnata sibilò nuovamente nell’aria e la colpì ancora sul fianco “Aah ventiquattro”, mi spostai nuovamente girandole intorno ed ogni volta che mi fermavo il sibilo e poi sciack sulla sua pelle nuda mentre contava a denti stretti colpo dopo colpo inarcando la schiena ed alzandosi in punta di piedi tirandosi su con le mani legate. “Aaaah ventinove” urlò, alzai il braccio e sferzai l’ultimo colpo fortissimo sulla schiena “Aaah trenta” gridò. Mi portai davanti a lei, entrambi eravamo ansimanti, allentai la catena e lei si lasciò cadere in ginocchio, mi slacciai i bottoni dei pantaloni in pelle ed il cazzo balzò fuori con uno scatto, li abbassai, sempre con i polsi uniti tra di loro me lo prese in mano, se lo infilò in bocca ed iniziò a succhiarmelo. Pochissimi istanti e le riempii la faccia, la bocca, i capelli; la sborra le colava sul seno frustato, rimisi la catena in tiro in modo che alzasse le braccia rimanendo sempre in ginocchio, mi coricai sul tappeto, e come fa un meccanico che si infila sotto ad un’auto, scivolai, con la testa in mezzo alle sue gambe ed iniziai a leccarla e ad infilare la lingua nella figa grondante di umori, sentivo il sudore l’acqua e la sborra che dal suo corpo mi colava sul petto. Venne praticamente subito con un sussulto violento e ritmico riempendomi la faccia e la bocca del suo succo viscido, inghiottii più che potevo, poi uscii da lì ed in ginocchio andai a cercare la sua bocca ancora sborrata per infilarci dentro la lingua.
Mollai nuovamente la catena, abbassò le braccia, la sganciai lasciando i polsi uniti dal moschettone, afferrai i bracciali e la tirai, mi seguì camminando sulle ginocchia, la feci mettere alla pecorina sul letto. Il cazzo non mi si era più ammosciato e d’in piedi la penetrai. La scopai con dei colpi così forti che credo il rumore lo avessero sentito anche i vicini al di là della torre delle scale. Gridava e godeva come non avevo mai sentito. Avevo la cappella talmente gonfia che mi faceva persino male ed aveva assunto un colore violaceo. Sapevo che prendeva la pillola così accelerai il ritmo dei colpi e le sborrai dentro tutto quello che avevo nelle palle; iniziarono a tremarle le gambe e anche lei venne ancora come una fontana. Mi staccai e mi coricai sudato e ansimante vicino a lei, la quale si voltò supina, allargò le gambe, con i polsi ancora uniti arrivò al sesso e con le dita si tirò fuori lo sperma dalla figa per poi portarselo alla bocca e leccarlo. La guardai pensando “Che gran porca”, lei vide che la guardavo, “Mi piace” disse e scoppiò a ridere. Ridemmo insieme e la baciai sulla bocca. “Adesso i porci eravamo due” pensai.
Si erano fatte le dieci di sera, le tolsi i bracciali ed andò a fare una doccia. Quando uscì da sotto l’acqua mi disse “Guarda cosa hai fatto” mostrandomi i puntini viola sui fianchi e sui seni alla fine di striature rosse in rilievo dal gonfiore. Mi corse incontro, si alzò in punta di piedi, mi bacio sulla bocca e disse “Mi piace un casino giocare con te”. “Anche a me” risposi. Feci una doccia anch’io. Quando uscii si era sistemata alla bella e meglio. “Portami a casa che devo prendere le altre” disse sorridendo. Dallo zainetto tirai fuori un cazzo di gomma che avevo preso sempre nel sexy shop di Amsterdam e glielo diedi “Questo è un regalo per te per quando non ci sono”. Mi baciò ancora stringendo il nuovo giocattolo in mano, “Così non devo più dire a mia madre di comprarmi i cetrioli che tra l’altro non mi piacciono” disse e scoppio a ridere. Prendemmo la macchina e intorno a mezzanotte, la lasciai a casa sua. “Ci vediamo domani?” “No, devo prepararmi per il viaggio di mercoledì” risposi. Era l’una di notte quando rientrai al monolocale. Riordinai un po' pensando intanto ad altri giochi da poter fare con lei, ebbi un’erezione e mi masturbai. Mercoledì mattina sarei partito per le dolomiti con gli alpini di Mortara per rientrare domenica sera.
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