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Prime Esperienze

Serva del mio Padrone - Parte 1 - Vittorio


di StefanieSalope
06.04.2023    |    1.028    |    4 9.3
"Da quel giorno non aiutai più mamma a truccarsi, anche se a volte la spiavo mentre si preparava..."
Eccomi qui. Sono Stefanie la Salope, nata Vittorio, cresciuta come Vittorio e rinata Stefanie grazie a due angeli che, molti anni fa, presero la maschera da uomo che portavo e la distrussero per far rivelare la femmina che la mia famiglia, la città in cui ero cresciuta, la vita stessa, avevano sepolto sotto metri di convenzioni sociali. La mia mamma è tutt’ora una donna bellissima, con origini asiatiche visto che nonna era vietnamita, mentre nonno era un marinaio Italiano che lavorava sui mercantili che viaggiavano tra Europa e Stati Uniti. Si erano conosciuti in America, credo a New York. Mia nonna faceva la donna di servizio in un qualche motel. Non mi è mai stato raccontato di preciso come, ma nonna si ritrovò con mia mamma in grembo. L’unica cosa che mi ha sempre raccontato è stato quando Nonno, tornato dopo mesi di mare, scoprì che di li a poco sarebbe diventato padre. Nonna era certa che l’avrebbe abbandonata ed invece, appena mamma fu nata, le portò con se in Italia con un piroscafo. Purtroppo, quando mamma era ancora piccola, rimase orfana del papà perché morì in un incidente stradale.
Mio padre invece è un Maresciallo della GdF, pugliese, trasferito a Trieste per servizio, dove ha conosciuto mamma.
Lui è un uomo Forte, risoluto, sempre impeccabile, alto e muscoloso, con una mentalità completamente diversa da quella dei Friulani. Pretendeva da me che fossi sempre mascolino, ordinato, ubbidiente, ed ogni errore era punito con severità, in molti casi anche fisica. L’unica persona con cui era affettuoso e gentile era la mia mamma.
Lei invece era sempre gentile, non alzava mai la voce, riusciva sempre a calmare le mie paure, ma mai e poi mai andava contro mio padre.
Ricordo che da piccola amavo guardarla mentre si preparava per uscire con mio padre. Mi incantavo mentre indossava le calze, il reggiseno, le mutandine, sempre molto caste. Osservarla mentre si truccava era sempre, per me, come andare al cinema. Mi divertivo a passarle il necessario, cercando di prevedere cosa le servisse.

Tutto finì quando, un giorno, arrivò mio padre. Avevo quasi 12 anni, il mio corpo stava cambiando, la mia voce anche, e cominciavo ad avere le prime … pulsioni al mio pistolino, come lo chiamava nonna. Quel giorno ero in camera con mia mamma mentre si truccava davanti alla toilette da camera e tenevo in mano un rossetto quando sentii strattonarmi la maglietta del pigiama. Quando lo guardai non sembrava lui. Era furibondo, gli occhi neri sembravano quelli di un orso. Mi diede uno sberlone così forte che l’orecchio cominciò a fischiare. Mi gridò di andare nella mia cameretta dove io corsi immediatamente. Invece di chiudere la porta la lasciai un po’ aperta perché avevo paura che avrebbe picchiato anche mia mamma. Invece ci fu un lungo silenzio. Riuscivo a vederla ancora seduta davanti allo specchio, con la testa bassa, e lui di spalle. Potevo sentirlo ansimare finché disse queste parole: “ho già la vergogna di avere un figlio frocio, almeno non insegnargli a fare la donna. Non posso lasciare che si veda com’è, altrimenti sarà sempre il frocietto della compagnia e soffrirà come un cane”.

Quelle parole non riuscivo a capirle. Mi sembravano cattive, ma allo stesso tempo protettive. Solo dopo molti anni ho capito che, a suo modo, mi trattava così per proteggermi, perché non conosceva altro modo.
Mia mamma rispose qualcosa che non riuscii a sentire e subito mio padre si girò per venire nella mia camera. Io sono subito corsa sul letto sperando che non mi avesse visto.
Quando entrò mi guardò di nuovo, senza parlare; il suo sguardo era diverso. Non più furibondo, ma profondamente triste. Mi strattonò per un braccio, mi girò verso il muro e mi fece abbassare. In quel momento il mio sederino era all’indietro, le mie mani sul muro e la mia faccia rivolta verso il pavimento. Sentii che si slacciava la cintura dei pantaloni mentre con una mano mi abbassava i pantaloni e le mutandine fino a metà coscia. Invece di essere terrorizzata, sentivo uno strano calore tra le gambe e il mio pistolino muoversi da solo. Un cinghiata mi arrivò forte e dolorosa sul sedere e gridai per il dolore. Piangendo chiedevo “perché papà”. Lui non mi ha dato nessuna risposta. Ha solo continuato a colpirmi, per 10 volte esatte. Sentivo un dolore lancinante, credevo mi avesse strappato la pelle, ma il mio pistolino era dritto dritto e non ho mai saputo se mio padre l’avesse visto. Dopo le cinghiate ho sentito che si rimetteva la cintura e, mentre usciva dalla porta mi disse: “questo è quello che succede alle femminucce. Comportati da uomo e non succederà più”.
Quando chiuse la porta mi alzai e cercai di guardarmi il sedere. Dove mi aveva colpito era rosso scuro, quasi viola. Il dolore era fortissimo ma il mio pistolino continuava a stare su, duro e senza che me ne rendessi conto, con una mano massaggiavo il sedere dolorante, e con l’altra massaggiavo il mio pistolino, finché non sentii il rumore delle ciabattine di mamma avvicinarsi e mi lanciai sul letto.
Mentre ero distesa ancora a pancia in giù sul mio lettino, è entrata ed ho cominciato a chiederle perché, perché, perché mi aveva fatto così male. Lei non mi ha dato nessuna risposta. Ricordo solo di aver sentito i suoi baci sul mio sederino prima di un unguento freddo che riuscì a lenire leggermente il dolore mentre il pistolino ritornava a muoversi e diventare duro.
Solo un attimo prima di uscire dalla mia camera mi disse di ascoltare mio padre, perché era la cosa giusta.

Da quel giorno non aiutai più mamma a truccarsi, anche se a volte la spiavo mentre si preparava. Cominciai a copiare i maschi della mia età, dicendo ogni tanto parolacce e facendo apprezzamenti volgari sulle ragazze. Cominciai anche a fare sport da maschi, come il calcio o il basket, ma ero veramente incapace, finché un giorno mio padre mi portò ad un circolo tennis, dove tutti lo trattavano con rispetto, e mi iscrisse per imparare a giocare. Li ero bravina , e in più era frequentato da tanti figli e figlie di persone importanti della città con cui feci amicizia.
Gli anni passarono e a 16 anni avevo la prima morosetta con cui, dopo pochi mesi, persi la mia verginità maschile. Laura era una ragazza molto carina, un po’ grassottella e con modi non particolarmente femminili. Viveva sola con il padre, un operaio del porto che raramente era in casa.
Il sesso tra di noi era normale, anche se io facevo tutto quello che piaceva a lei.
In quel periodo mio padre era sempre tranquillo con me, anzi era proprio buono e sempre disponibile. Io però, molto spesso, ricordavo quel giorno delle cinghiate, e continuavo a chiedermi perché.
Dopo Laura, mi frequentai con una ragazza conosciuta al circolo. Giuseppina era figlia di un importatore di materie plastiche, molto benestante. Con lei il rapporto era diverso. Facevamo sesso molto spesso e a me piaceva, soprattutto perché le piaceva condurre i giochi. Amava leccarmi la rosellina, e ogni tanto mettere un dito dentro mentre mi faceva i pompini. Inoltre diceva sempre che adorava come la leccavo. Sapevo anche che ogni tanto faceva sesso con altri ragazzi, ma a me non dispiaceva perché comunque, con lei, stavo bene e mi sentivo protetta.
Appena finita la maturità al liceo linguistico, mio padre mi disse che, se volevo, potevo andare a lavorare in una importante fabbrica di caffè, nel reparto vendite. Io però gli dissi che volevo fare economia aziendale a Bologna. Ero pronta a prendermi il suo rimprovero ed invece mi abbracciò e mi sussurrò: “Sono orgoglioso di te. Vai e vivi la tua vita come vuoi, ma quando torni qui, ricorda che sarai sempre il mio ometto”.
Ero confusa ma felice. Finalmente potevo andarmene lontano, dove nessuno mi conosceva. Lasciai Giuseppina, dicendole che le volevo bene, ma che non me la sentivo di mantenere un rapporto a distanza, visto che lei sarebbe andata a studiare a Roma. Lei mi rispose semplicemente che era giusto e che mi augurava di essere felice.

Dopo pochi mesi a Bologna mi sentivo per la prima volta libera. Andavo a lezione, studiavo e uscivo con gli amici e ben presto, uno di loro, Alberto, mi invitò ad una festa privata, in una villa sui colli poco fuori città. Era un posto incantevole, con un giardino curatissimo. All’esterno era stata creata una zona bar, mentre nel grande salone interno era stata ricreata una specie di discoteca. C’era la consolle del DJ e una serie di divanetti messi in cerchio che delimitavano la zona ballo. Ci misi un bel po’ a rendermi conto che la quasi totalità delle persone erano maschi. Principalmente c’erano giovani studenti universitari, ma molti erano signori adulti tra i 40 e i 70 anni. Capii solo più tardi, visti i modi effeminati di molti dei presenti, che la festa era riservata a persone gay. Alberto mi presentò a molti suoi amici. Tutti erano carini, gentili e ben vestiti.
Dopo molte chiacchiere e alcuni bicchieri di ottimo vino, Alberto mi portò nella pista da ballo. La musica era alta ma non troppo come in molte discoteche. Mi stavo divertendo, ero tranquilla e rilassata. Molti ragazzi si baciavano, si toccavano con passione ed anche molta promiscuità. Tutto era tranquillo finché, mentre ballavamo, Alberto mi baciò, davanti a tutti. Per un attimo mi sentii a disagio, volevo allontanarlo, picchiarlo, ma subito sentii il mio uccello svegliarsi. Lo lasciai fare.
Era appassionato, la sua lingua si muoveva nella mia bocca. Dopo poco sentii una mano stringere il mio sedere, palparlo con forza. Quelle mani mi presero e mi allontanarono da Alberto e, quando mi girai trovai, il volto di un bel ragazzo, alto, con i capelli biondi e gli occhi chiari, muscoloso. Mi infilò la sua lingua in bocca, anche lui sembrava volesse arrivarmi in gola. Sentii un’altra presenza dietro di me. Si strusciava contro il mio didietro e sentivo qualcosa di grosso e duro tra le chiappette. Le mani di quello sconosciuto mi toccarono il petto, cercando i miei capezzoli che si indurirono, sotto la magliettina di cotone aderente che indossavo. Poi scesero fino a raggiungere la patta dei jeans, la cintura veniva slacciata e in un attimo ho sentito delle mani possenti afferrare il mio uccello che in quel momento era durissimo, quasi da farmi male. Il ragazzo che mi stava baciando si abbassò e lo prese in bocca, muovendo la sua mano. Ero in uno stato di trans, sentivo tutte quelle mani addosso e non riuscivo a fare altro che lasciarmi usare, anche se, quel pompino, non mi stava dando particolare piacere. Quando riaprii gli occhi riuscii a vedere che intorno a me tanti altri ragazzi si baciavano, si toccavano, si spogliavano. Su un divanetto c’era un uomo decisamente adulto, nudo, con la pancia e il petto villoso, che a quattro zampe veniva sodomizzato da un ragazzo nero mentre un altro, che conoscevo bene perché era il fidanzato di una mia compagna università, gli riempiva la bocca con il suo enorme uccello. In quello stesso momento una mano stava esplorando le mi chiappette finché, arrivato alla mia rosellina, cercò di penetrarla. Sentivo caldo e freddo allo stesso tempo. Mi sembrava di essere fuori dal mio corpo finché, quel turbinio di sesso, quella promiscuità di bocche, quella penetrazione decisa, mi provocò un orgasmo. Il ragazzo biondo lo tenne tutto in bocca fino a quando si alzò e mi baciò inondando la mia bocca del mio stesso sperma. Era cremoso, salato ma dolce allo stesso tempo. Lo ingoiai tutto e mi sentivo calma e rilassata.
Alberto, che solo in quel momento capii essere dietro di me, con il dito ancora infilato nella mia rossellina, mi disse: “Lo sapevo che ti sarebbe piaciuto, ma adesso devi accontentare anche me. Mi prese per una mano, e mi portò su uno dei divanetti posti in cerchio attorno alla pista da ballo. Io avevo ancora i pantaloni slacciati e l’uccello turgido. Alberto si sedette e subito lo prese tra le sue labbra. Era ancora duro, ma la mia eccitazione era decisamente minore rispetto a prima. Mi succhiai un dito, inumidendolo, e cercai la mia rosellina fino a violarla. Stavo ricominciando a provare vero piacere quando Alberto si girò, con i pantaloni abbassati e mi disse: “Dai tesoro, mettimelo nel culo”.
Io ero immobile. Avevo il suo sedere completamente liscio davanti e non provavo nessuna eccitazione nel pensare di mettere il mio uccello in quell’ano tutto slabbrato. Lui mi incitava, con lussuria e volgarità: “dai Vittorio, inculami, voglio sentire il tuo cazzo nel culo. Non avere paura, sono abituato a cazzi ben più grossi”.
Volevo andarmene, ma ero da sola, a piedi, e non avevo idea di come tornare a casa. Mi appoggiai a lui, cominciai a spingere finché non mi sentii dentro di lui. Provai a muovermi, come avevo visto in qualche film porno, ma sentivo che perdevo vigore. Chiusi gli occhi e pensai a poco prima, al piacere provato mentre il dito di Alberto mi penetrava. Cercai di spingere sempre più forte finché non entrai completamente. Alberto continuava ad incitarmi, mi diceva di spingere più forte. Improvvisamente una mano raggiunse il mio sedere ed una voce suadente mi chiese il permesso di giocare con la mia rosellina. Non risposi ma sentii subito un dito penetrarmi, e poco dopo un altro. Assecondai quei movimenti mentre ero dentro Alberto. Le sensazione di piacere e lussuria tornarono a rapirmi e il mio uccello si era fatto decisamente più duro. Alberto gemeva, inarcava la schiena finché mi disse, quasi gridando: “dai riempili il culo, inondami con la tua sborra, fammi sentire una troia”. Io accelerai il mio movimento ma in, quel momento, con le dita nel mio culetto ero io a sentirmi una troia. Mentre mi sforzavo di muovermi sempre più velocemente, il ragazzo biondo di prima si mise davanti ad Alberto e infilò il suo membro nella sua bocca. Io mi immaginai di essere Alberto, di avere quell’asta nella mia bocca e finalmente il mio uccello eiaculò.
Ero tramortito, confuso, eccitato e spaventato. Quando uscii dal suo ano riuscii a riconoscere Luca, il ragazzo della mia compagna. Era lui ad avermi penetrata poco prima. Mi guardò e mi disse: “Vittorio guarda come si fa”. Prese in mano quella bellissima asta, quel cazzo grosso e senza neppure un pelo e, con forza e decisione, lo infilò dentro Alberto. Lui urlò: “Ah si, finalmente un cazzo vero. Dai sfondami, lo voglio sentire in gola!”
Io ero incredula. Luca era una furia, temevo che Alberto si sarebbe spaccato ed invece lo vedevo godere.
“Dai puttanella, fallo sborrare mentre lo sfondo”. Luca era perentorio ma io non sapevo come fare. A parte qualche porno, non sapevo come si facevano i pompini, non ne avevo mai fatti. Mi inginocchiai e presi in mano l’uccello di Alberto. Cominciai a muovere la mano, come facevo da sola sotto la doccia, sempre più velocemente, cercando di seguire il ritmo di Luca. Improvvisamente Alberto gridò e vidi che dalla sua cappella partì un potentissimo getto di liquido bianco. Istintivamente, mentre ancora muovevo la mano, allungai l’altra mano cercando di raccogliere quanto più nettare possibile. Mentre Luca continuava a penetrare Alberto, io mi portai la mano alla bocca e assaporai quel liquido biancastro. Il gusto era completamente diverso dal mio, decisamente più acido e viscoso, ma lo mandai giù tutto. Improvvisamente Luca mi prese per i capelli, tenendomi li mentre sodomizzava Alberto con violenza fino a quando non gridò tutto il suo piacere. Rallentò il suo movimento, diede un ultimo affondo e poi si ritrasse. Albero si lasciò andare e dal suo buco ancora completamente dilatato cominciò ad uscire lo sperma di Luca, probabilmente mescolato al mio. Sentii tirarmi i capelli e spingere la testa verso il didietro di Alberto mentre Luca mi diceva “Dai Vittorio, visto che ti piace tanto, mangia tutta la sborra”.
Io ubbidii e raccolsi con la lingua tutto ciò che colava dalla voragine che Alberto aveva tra le natiche. Mi piaceva tantissimo, ma ancor di più provavo piacere nel sentire la mano di Luca che mi costringeva a farlo.
Quando Luca mi lasciò mi rialzai, mi sistemai i pantaloni e corsi in bagno. Guardandomi allo specchio notai che del liquido bianco stava colando a lato della mia bocca. Stavo per pulirmi con una salvietta quando un vecchio di almeno 70 anni mi bloccò la mano e mi leccò come fanno i cani. Ero impietrita, forse disgustata, ma anche in quel momento rimasi completamente bloccata.
Quel vecchio, piccolo e grasso, mi strinse il sedere e, leccandomi l’orecchio, mi sussurrò: “mi piacere provare a scoparti. Scommetto che sei una cagna mangia sborra”.
Quell’uomo puzzava di alcool, di fumo, era sovreccitato e mi spaventò a morte. Corsi fuori dal bagno dove ritrovai Alberto. Lo implorai di portarmi a casa perché, gli dissi, non mi sentivo bene.
Non protestò, anzi fu molto affettuoso e mi riportò verso zona Murri, dove c’era l'appartamento in cui vivevo da sola. Durante il viaggio nessuno dei due aveva parlato, ma una volta davanti a casa, Alberto si avvicinò e mi diede un tenero bacio. Mi disse che si era divertito molto e che avrebbe voluto proseguire la serata con me. Ero nuovamente bloccata e, presa un po’ dal panico, gli dissi di salire. Appena entrati in casa, mi prese il viso tra le mani e mi baciò di nuovo con passione. Io continuavo ad essere passiva, non capivo che cosa provavo. Mi ritrovai nuda e subito dopo Alberto mi spinse sul letto. Anche lui si era denudato e il suo era un corpo non muscoloso, ma magro e ben proporzionato. Era eccitato e il suo membro, decisamente più grande del mio, era davanti a me. Si inginocchiò e cominciò a leccare il mio uccello. Ci metteva impegno ma non ne voleva proprio sapere di diventare duro. Chiusi gli occhi e ricominciai a pensare alle dita di Luca che mi penetravano, al sapore dello sperma che avevo bevuto poco prima, ma non servì.
Poco dopo fermai Alberto e gli dissi che ero stata benissimo con lui, ma che ero veramente distrutta e che avrei preferito rimanere sola. Si alzò in piedi, mi fissò per qualche secondo e poi mi schiaffeggiò. Ero attonita, sopraffatta. Provai a guardarlo e mi arrivò un altro schiaffo sull’altra guancia. Solo in quel momento mi disse che ero solo una puttanella e che mi avrebbe dato ciò che meritavo. Mi strinse il collo, non forte ma abbastanza da immobilizzarmi. Mi disse di aprire la bocca e ci infilò il suo membro. Si muoveva dentro di me, provocandomi dei conati ogni volta che raggiungeva la mia gola. Era sempre più veloce finché sentii un liquido caldo finire direttamente in gola. Tossii forte, mi sentivo soffocare, ma lui mi teneva per i capelli e continuava schizzare sul mio viso. Passarono alcuni secondi, poi strusciò il suo membro sul mio viso, per pulirselo. Subito dopo mi arrivò un altro schiaffo, questa volta meno forte, ma che comunque mi fece provare dolore. Lo guardai di nuovo e in quel momento mi disse che era deluso da me. Sperava che tra noi ci fosse qualcosa, mentre io ero solo una troia, e lui delle troie non sapeva cosa farsene. Ero di nuovo bloccata, senza parole. Mi sentivo umiliata, inutile e profondamente sola. Quando finalmente uscì di casa, scoppiai a piangere. Mi chiedevo cosa ci fosse di sbagliato in me; le donne, sessualmente, non mi eccitavano, ma mi piaceva guardarle, ammirarle, soprattutto mentre si preparavano. Ma non mi eccitava neppure l’idea di penetrare un uomo. Andai sotto la doccia. Continuavo a lavarmi, ma mi sentivo sempre sporca, soprattutto il mio uccello, mentre appena mi toccavo il sedere, sentivo l’istinto di penetrarmi la rosellina. Lo assecondai e allo stesso tempo mi masturbavo fino a quando eiaculai sotto la doccia. Mi lavai di nuovo e decisi che non avrei mai più frequentato feste o locali come quella sera.

Feci tutte le analisi del sangue perché, anche se conoscevo quasi tutti quelli con cui avevo avuto rapporti quella sera, non erano protetti. Fino a quando vidi l’esito, ero preoccupatissima, non uscivo se non per andare a lezione, temendo di essere infetta. Fortunatamente ero sanissima e cambiai frequentazioni. Mi legai molto con alcune ragazze che frequentavano i miei stessi corsi e passai il resto dell’anno concentrata sullo studio.

All’inizio del secondo anno trovai una coinquilina.Susanna era di Macerata ed era una ragazza dalla bellezza normale, poco appariscente, ma sapeva, con trucco ed abbigliamento, trasformarsi in una donna decisamente sensuale, quasi volgare. Solo dopo qualche mese mi confessò di prostituirsi per mantenersi, visto che si era allontanata da casa perché il suo patrigno era un uomo cattivo, che la guardava come una preda facendola sentire a disagio. Io non la giudicai e le dissi che poteva stare con me, ma che mai nessuno dei suoi clienti avrebbe dovuto sapere dove abitavamo. Diventammo amiche e lei era l’unica che sapeva quali esperienze avessi fatto, ma che adesso ero concentrata solo sullo studio.
L’unica cosa che in mi ero concessa era un piccolo plug, simile a quello che avevo visto in un video porno. All’inizio mi piaceva indossarlo in casa ma, sempre più spesso, lo portavo anche a lezione o quando andavo a fare la spesa.
Verso la fine del terzo anno, Nicoletta, una mia compagna di corso con cui condividevo moltissimo tempo, mi invitò a passare il week end a casa sua, in via Farini, nel pieno centro della città, per preparare l’esame di inglese.
Il venerdì pomeriggio arrivai a casa sua dove restammo tutta la sera a ripassare e a guardare Gray’s Anatomy. Verso le due decidemmo di andare a letto assieme nel suo lettone. Io avevo solo le mutandine e molto presto mi resi conto che, una volta sotto, lei si era completamente denudata. Si avvicinò a me, appoggiando la testa sul mio petto. Potevo sentire i suoi seni sul mio braccio, e la sua gamba sfiorarmi il pene che non ebbe alcuna reazione. Lei, con grande dolcezza, mi disse di non preoccuparmi. Aveva capito che non la volevo sessualmente, e che per lei ero un’amica. L’abbracciai senza dire una parola e mi addormentai serena.
Il giorno seguente, dopo aver fatto colazione, ricominciammo a studiare. Mentre io la interrogavo, lei continuava a mostrarmi i vestiti che si era presa qualche giorno prima. Erano tutti bellissimi, provocanti, e le stavano d’incanto. Quando la vidi provare calze e reggicalze rimasi incantata dalla sua sensualità e le dissi che era bellissima. Lei si fermò e mi chiese se volevo provare a mettere le calze, le sue mutandine o i suoi vestiti. Rimasi imbambolata per parecchi secondi non capendo cosa stesse succedendo finché, senza rendermene neanche conto, la mia bocca disse che preferivo di no, che ero contento di stare così com’ero, senza provare cose nuove.
Nicoletta mi guardò con affetto, si avvicinò dandomi un bacio sulla guancia e mi disse: “come vuoi amica mia. Spero che un giorno capirai cosa sei veramente.”
Non risposi, e non parlammo mai più dell’argomento.

Arrivai finalmente alla laurea. Con tanto impegno e fatica ci riuscii con sei mesi di anticipo. I miei genitori non smettevano di dirmi quanto erano fieri di me, mi coccolavano come non mai, soprattutto mio padre.
Un giorno volle portarmi a pesca in barca con lui, a tutti i costi. Dopo mezz’oretta di navigazione si fermò e cominciò a preparare le canne, le esche e tutto il necessario. Quando gli chiesi se potevo aiutarlo lui si fermò, lasciò cadere tutto sul pozzetto della barca e mi fissò. Il suo sguardo sembrava triste, ma allo stesso tempo sereno. Tirò un forte sospiro e mi disse: “Vittorio, ti ho portato con me perché devo parlarti con calma e ti prego di non interrompermi perché per me è molto difficile. Lo so come sei, l’ho capito quando avevi otto anni. Eri esattamente come tuo cugino Mimmo. Ho sempre cercato di contrastarti, di impedirti di mostrare che sei finocchio. L’ho fatto per il tuo bene e, lo ammetto, soprattutto per quello mio e della mamma. So che a Bologna hai fatto le tue esperienze, si vede. E’ per questo che devo chiederti di andartene da Trieste. Stando qui non saresti libero e felice, e neppure io e la mamma. Ho un parente che vive a Verona ed ha una pizzeria da asporto. Mi ha detto che ti assumerà per stare alla cassa i fine settimana. La potrai sicuramente trovare un lavoro adatto alla tua intelligenza ed alle tue capacità e, fino a quel momento, ci penserò io a sostenere i costi di casa e spesa. So che ti chiedo tanto, ma è per il bene di tutti. Voglio che tu sia libero di vivere come meglio credi, ma voglio anche non vergognarmi nel sentire la gente criticare come sei”.
Ero sconvolta, non capivo cosa volesse dire. Mi stava cacciando di casa? Perché voleva che andassi via? Cosa avevo fatto di male? Volevo gridare, insultarlo, fargli male, ma il suo sguardo era pieno di amore, come mai prima d’ora. Mi guardava come lo avevo visto fare solo nei confronti di mamma. In più aveva una infinita tristezza negli occhi e le mie difese cedettero. Le lacrime scendevano sulle mie guance e gli dissi che avrei fatto come lui voleva. Mi abbracciò forte forte, quasi da togliermi il fiato, come faceva quando gli correvo incontro fuori dalla scuola dell’infanzia. E mi disse “grazie ometto! E ricorda che io e la tua mamma per te ci saremo sempre”.

La settimana dopo sono arrivata a Verona. Mio padre aveva trovato un appartamento a Borgo Trento, piccolo ma carino, con due camere da letto, vicino alla pizzeria del cugino Cosimo. Come prima cosa chiamai Susanna, invitandola a stare con me. Sapevo che continuava a prostituirsi, ma ormai i suoi guadagni erano aumentati, anche perché, grazie ai tanti siti di escort, la sua tariffa era decisamente alta. La settimana seguente arrivò con il suo carico di entusiasmo e vitalità. Aveva già trovato un appartamento a Borgo Roma dove lavorava assieme ad una Trans che si faceva chiamare Ginevra. Averla con me fu una vera fortuna, perché riusciva sempre a strapparmi un sorriso, anche quando ero particolarmente giù di morale, visto che ancora non riuscivo a trovare un lavoro decente. Continuavo a portare curriculum ovunque ma nessuno mi chiamava, se si escludono alcuni colloqui in cui era palese che, il reclutatore di turno, cercasse carne per il suo piacere, oltreché lavoratori sottopagati.
Un giorno trovai tra le offerte di lavoro un annuncio diverso dal solito. Diceva che cercavano una figura per il reparto amministrativo, con buona conoscenza dell’inglese, senza necessità di esperienza, ma con la voglia di mettersi in gioco in un settore in forte espansione. Inoltre affermava che, con la giusta volontà unita alle necessarie capacità di apprendimento, c’erano interessanti probabilità di avanzamento di carriera.
Mandai subito il curriculum alla e-mail indicata. Al contrario di quanto successo fino ad allora, il giorno seguente ricevetti subito una risposta da parte del titolare che si firmava Rodolfo. Mi aveva scritto che il profilo descritto nel curriculum era in linea con le richieste e che entro un mese mi avrebbe comunicato le sue decisioni.
Ero fiduciosa e, non so neanch’io perché, smisi di cercare lavoro. Sentivo che il signor Rodolfo mi avrebbe assunta.
Un mese esatto dopo arrivò la mail con cui mi diceva di essere una delle quattro figure selezionate per il colloquio finale e che mi sarei dovuta presentare il giovedì seguente, alle 16:00, presso la sede aziendale.

Quel giorno cominciai a prepararmi fin dalla mattina. Ero agitata ma fiduciosa. Provai tutti gli abiti che avevo, ed alla fine decisi di andare con una camicia bianca, molto semplice, ed un paio di pantaloni eleganti, ma soprattutto lunghi fino a coprire completamente le caviglie, senza seguire la moda del momento. Pochi giorni prima ero stata dall’estetista con Susanna, a fare manicure e pedicure, oltre ai soliti trattamenti per il viso. Susanna era quasi ossessionata. Diceva che ero troppo bella per trascurare la mia pelle come gran parti dei maschi. In più mi aveva convinto a mettere sempre un leggerissimo strato di matita per esaltare i miei occhi, che definiva sempre i più belli che avesse mai visto.
Quando arrivai al colloquio ero nervosissima ed eccitata. Gli altri tre ragazzi erano già li. Due erano molto alti, palestrati, sicuri di se, vestiti in giacca, cravatta, pantalone con il risvoltino e mocassini; mi squadrarono dall’alto in basso con un fondo di disprezzo. L’altro invece si chiamava Antonio, e fu l’unico a presentarsi. Era poco più alto di me, ben vestito ma non particolarmente elegante.
I due elegantoni furono i primi ad essere chiamati e, uno dopo l’altro, rimasero a colloquio si e no cinque minuti. Quando uscì il secondo ci guardò con disprezzo e ci disse che quel posto era destinato a fallire, e che era il posto giusto per due sfigati come noi.
Entrò Antonio che uscì dopo circa venti minuti. Mi disse che non credeva di aver fatto una gran buona impressione e che sicuramente avrebbero assunto me. Mi augurò buona fortuna e se ne andò, con quel suo incedere poco elegante.
Finalmente il signor Rodolfo mi invitò ad entrare. Ero sempre più eccitata e sicura di me. Volevo assolutamente quel lavoro, sentivo che era giusto per me.
Il Signor Rodolfo, anzi il Dott. Rodolfo, come c’era scritto sulla porta del suo ufficio, era un uomo più vecchio di me, più alto di almeno 20 centimetri. Aveva spalle larghe e braccia muscolose ed era vestito in maniera molto semplice, con una t-shirt nera e un paio di jeans con scarpe da tennis. Aveva degli occhi marroni molto penetranti, che da subito mi scrutarono con attenzione e io cercai di sostenere lo sguardo mentre ci stringevamo la mano. La sua stretta era decisa e possente, come la mia, grazie agli insegnamenti di mio padre che, fin da ragazzina, mi diceva che la stretta di mano è fondamentale, e non deve mai essere passiva, ma invece ferma, senza cercare di prevaricare il proprio interlocutore. Mi fece le classiche domande di rito e li scoprii che anche lui aveva studiato a Bologna economia e commercio. Tutto stava andando liscio, lineare. Mi sentivo come ad un esame sapendo di essere perfettamente preparata.
Lui continuava a scrutarmi ed in più aveva un sorriso bello, sincero e rassicurante. Improvvisamente cambiò espressione, sembrava ansioso e mi chiese, dal nulla, se fossi fidanzata o sposata. Solo in quel momento ho esitato, più che per la domanda in se, per il fatto che fosse completamente fuori contesto. Gli risposi che convivevo con una ragazza da un paio d’anni.
La mia risposta sembrava averlo sorpreso, ma in un attimo tornò sul suo volto quel magnifico sorriso e mi disse che, se volevo, potevo cominciare il lunedì seguente. Per i primi tre mesi avrei ricevuto uno stipendio di circa 1200,00 € più eventuali straordinari. Se avessi superato il periodo di prova, mi avrebbe assunta a tempo indeterminato con un corposo aumento. Io rimasi pietrificata, avevo ottenuto un lavoro che la stragrande maggioranza dei miei coetanei si sognava, non sapevo cosa rispondere. Lui si alzò in piedi, sentivo i suoi occhi penetrarmi l’anima mentre mi congedava con la sua stretta di mano energica, dicendomi che si aspettava molto da me.
Uscii nel parcheggio quasi di corsa, salii in macchina, e cominciai a piangere di felicità. La prima persona che chiamai fu la mia mamma che subito mi passò mio padre. Era felice per me ma, con il suo solito piglio da maresciallo, mi disse da che quel momento avevo la responsabilità di impegnarmi al massimo.
Ero felicissima e corsi a casa. Susanna era sul divano e credo mi stesse aspettando per sapere come era andata. Mi abbracciò, mi fece i complimenti e disse che dovevamo festeggiare. Aprì una bottiglia di Ripasso e ce la bevemmo tutta, io e lei.
Alle 10 di sera lei uscì per un appuntamento con un cliente e io me ne andai in doccia. Ero ancora su di giri e mentre mi insaponavo cominciai a toccarmi. Nella mia mente si materializzò l’immagine del Dott. Rodolfo, le sue mani forti, i suoi occhi penetranti, la mascolinità che trasudava da ogni suo movimento, da ogni sua parola e cominciai a masturbarmi. Cercai di tornare in me, dopo tanto tempo risentivo quella brutta sensazione di essere sbagliata. Non dovevo pensare a lui come uomo, ma solo come il mio datore di lavoro. Uscii dalla doccia, mi asciugai con lentezza e poi mi distesi sul letto. Mentre aprivo il comodino per prendere il carica batterie del telefono, vidi il mio plug. L’eccitazione tornò a farsi sentire, crescente, quasi incontrollabile, e cominciai a leccarlo, a succhiarlo ripensando al Dottor Rodolfo. La mia mano era sul mio uccello, si muoveva sempre più rapida finché non mi infilai il plug nella mia rosellina. Lo spinsi con forza, quasi volessi punirmi per quella mia eccitazione. Sentii un bruciore forte, ma diventò subito piacere estremo e, mentre lo muovevo dentro alla mia rosellina, sentii pulsare il mio uccello che schizzò fortissimo. Il mio sperma mi arrivò in faccia e sulla pancia e, anche se mi sentivo un troia, come mi aveva chiamato Alberto la sera della festa, non riuscii a resistere e cercai di leccarla tutta. La raccoglievo con le mani e poi succhiavo le dita, ingoiando il mio sperma, ma pensando sempre al Dottor Rodolfo.
Finalmente mi addormentai ma il risveglio arrivò presto. Erano le 5 di mattina ma io ero ancora eccitata. Mi feci un’altra doccia, fredda, per calmarmi ma senza riuscirci. Decisi di andare a correre per smaltire la tensione e con la macchina raggiunsi il parco delle mura. Non erano ancora le 6 ed in giro non c’era nessuno. Io correvo, senza una meta, con mille pensieri nella testa. Dopo un bel po’ che correvo vidi due ragazzi che si intrufolavano tra dei cespugli. Per mia completa stupidità, ma forse per l’eccitazione che non voleva abbandonarmi, rallentai la mia corsa e, più o meno dove li avevo visti, mi fermai fingendo di fare stretching. I due ragazzi erano con i pantaloni abbassati e il più magro e minuto stava sodomizzando l’altro che era grande e tutto muscoli. Stupidamente cominciai a fissarli fin quando il magrolino si accorse di me. Si alzò e, mostrandomi il suo mostruoso arnese, mi gridò se volevo favorire, che ce n’era anche per me. Io corsi via e continuai a farlo a perdifiato per almeno 500 metri. Il cuore sembrava scoppiarmi come il mio uccello nei pantaloni. Presi la macchina e corsi a casa. Mi sentivo di nuovo sporca, sbagliata. Cosa avrebbe pensato il Dott. Rodolfo se mi avesse vista? Ero eccitata e terrorizzata e sotto la doccia ricominciai a masturbarmi, a infilarmi prima un dito, poi un altro e un altro ancora. Ero fuori di me e uscii dalla doccia, fradicia, cercando il fallo di gomma di Susanna. Sapevo che lo usava sempre sotto la doccia, prima di un appuntamento per preparare la strada, come diceva lei. Lo trovai e, anche se mi sembrava enorme, cercai di infilarlo subito nella rosellina, coricata sul tappeto del bagno. Appena entrò sentii un dolore fortissimo, ma non riuscivo a smettere di masturbarmi e penetrarmi allo stesso momento. Le mie viscere pulsavano, sentivo il fuoco addosso, non riuscivo a fermarmi fino a quando urlai “siii … godo dottore … siiii”. Anche questa volta gli schizzi uscirono potenti dal mio pene ed un paio riuscii a farli arrivare direttamente in bocca. Li ingoiai, insieme al resto finito sul mio petto e sulla pancia. Ero fuori di me dall’eccitazione. In quel momento entrò in bagno Susanna spaventata. Le mie grida l’avevano svegliata e Io diventai tutta rossa. Sentivo le guance in fiamme e rimasi immobile con ancora alcune gocce di sperma sulla guancia. Lei mi guardò, amorevole e comprensiva, dicendomi: “Stai pensando al tipo del lavoro vero?”. Io annuii, vergognandomi come una ladra, ma lei si inginocchio davanti a me, con il dito raccolse quel po' di seme che mi era rimasto sul viso e lo leccò dicendomi: “Ascoltami piccola, probabilmente quell’uomo non ti guarderà mai come vorresti tu. Pensa solo a lavorare e, quando non ce la fai più, fatti una bella sega. Non ti toglierà la voglia ma almeno ti calmerà. Ginevra dice che è per quello che si tiene il cazzo.”
La dolcezza della sua voce e del suo sguardo finalmente mi calmarono. Mi alzai e, una volta a letto, riuscii a riaddormentarmi. Mi svegliai solo al pomeriggio, molto più tranquilla. Susanna si era presa tutta la giornata di sabato e domenica per stare con me. Passai il tempo tranquilla e spensierata.
Arrivò la domenica sera e l’eccitazione arrivò insieme all’agitazione. Riuscii però a controllarla pensando che, dal giorno dopo, sarei stata tanto tempo con il Dottor Rodolfo e avrei fatto di tutto per soddisfarlo in ogni modo.
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