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Il paggio della regina - 2


di adad
23.02.2020    |    5.794    |    5 8.8
"Senza neanche pensarci, le dischiuse e lo lasciò entrare..."
Con i primi caldi di giugno, la Corte si era trasferita a Fontainebleau, la residenza tanto amata dalla regina per la frescura dei vasti giardini, e dallo stesso re per la riserva di caccia, che l’immensa foresta gli offriva.
Quel giorno, l’intera corte aveva preso parte alla battuta di caccia al cinghiale voluta da sua maestà per celebrare il solstizio d’estate. Fin dalla prime ore del mattino il cortile del castello reale era rintronato del latrato dei cani, del richiamo dei servi, del vociare dei convenuti e dello scalpiccio dei cavalli che venivano apprestati, mentre i guardiacaccia già partivano per individuare le prede e stanarle.
Finalmente, quando il re e la regina scesero nel cortile e salirono a cavallo con il loro corteggio, l’intera comitiva partì con grande strepito di corni, latrati e incitamenti di vario genere.
Armand de La Tour, però, era rimasto al castello, adducendo i postumi di una leggera indisposizione che lo aveva colpito qualche giorno prima; così, poco dopo la partenza dei cacciatori, si era messo nella sacca alcune fette di pane con del formaggio, una fiaschetta di vino, un libro ed era andato nel parco a cercarsi un angolo riparato, in cui passare quelle ore di quiete e di riposo.
Giunto nel suo angolo preferito, all’ombra di un vecchio platano, si era seduto sul soffice tappeto d’erba e appoggiato con la schiena al tronco contorto, si era immerso nella lettura. D’un tratto:
“Vaghi germogli che d’aprile ornate,
perle di primavera, i rami nudi…”
Armand sorrise a quei versi e si sporse a guardare alle sue spalle, da dove gli giungeva la voce ben nota.
“Che ci fai qua?”, esclamò felice, vedendo il cavaliere di Mont-Mercin seduto anch’egli per terra dall’altra parte del tronco.
L’altro gli sorrise con una dolcezza inesprimibile.
“Non sei andato alla battuta di caccia?”, chiese ancora Armand.
“Sono rimasto indietro e me la sono svignata. – rispose il cavaliere, indicando il cavallo, che brucava poco lontano – Sapevo di trovarti qui. Piuttosto che farmi uccidere da un cinghiale, - proseguì, alzandosi – preferisco morire fra le tue braccia.”
“Stupido… - fece Armand, stringendolo a sé - Non ti ho sentito arrivare.”
“Perché il mio cavallo vola come Pegaso, non lo sapevi?”
“E dove sono le ali, adesso?”, disse Armand, in tono scherzoso.
“Ripiegate sotto la coda.”
Scoppiarono a ridere entrambi, mentre tornavano a sedersi sul prato fianco a fianco, stringendosi la mano.
“Ho qualcosa da mangiare nella sacca, se hai fame.”, disse Armand.
“Dopo… - rispose Mont-Mercin con un sospiro – adesso ho fame di te…”, e lo spinse disteso, avvolgendolo in un abbraccio già frenetico e cercando con bramosia le sue labbra.
Poco dopo si rotolavano sull’erba, con gli abiti già scomposti e mezzo slacciati.
Confesso di sentirmi spesso a disagio, quando devo raccontare e descrivere momenti come quelli che seguirono: mi sembra di essere uno di quegli squallidi guardoni, che non riuscendo a vivere per loro conto le emozioni del sesso e dell’amore, cercano di ricrearle osservando quelle di altri.
Ma questo è il nostro lavoro, questo ci chiedono i lettori, che sono i nostri giudici, e allora come freddi reporter dobbiamo osservare e riportare, cercando di mantenere tutta la lucidità e la razionalità che ci sono possibili, anche se spesso è tutt’altro che facile.
Dopo un po’, i due amanti erano nudi, avvinghiati l’uno all’altro, la schiena di entrambi macchiata dell’erba e dei fiori su cui si erano rotolati. Era una delle poche volte che riuscivano a incontrarsi di giorno e senza impedimenti, da quando la regina si era invaghita del cavaliere e lo aveva reclamato al suo talamo. In genere i loro incontri erano fuggevoli e notturni, e magari già spossati l’uno dalle precedenti fatiche amorose, l’altro dall’estenuante attesa nell’anticamera buia. Ma stavolta non c’era nessuno a contrastarli, la caccia sarebbe durata tutto il giorno, salvo imprevisti, erano ore preziose, tutte per loro, e non volevano sprecarle.
Il cavaliere strinse fra le braccia il corpo nudo di Armand, assorbendone con rinnovata emozione il calore e il buon profumo della pelle, misto all’acre sentore dell’erba schiacciata. Con quanta bramosia, allora, ne leccò e vellicò con le labbra i capezzoli appuntiti, ne esplorò le ascelle odorose, ne mordicchiò la pelle delicata dell’addome, fino a raggiungere la meta agognata, l’uccello rorido di desiderio. Il cavaliere non ebbe esitazione a prenderlo in bocca, mulinandoci attorno con la lingua e ripulendolo dalla bava di cui era cosparso.
I suoi mugolii di soddisfazione si mischiavano a quelli di Armand, che gli si dimenava fra le braccia. Poi, senza lasciare la presa, il cavaliere si rigirò, mettendoglisi a cavalcioni e Armand si ritrovò la punta del suo cazzo stillante che gli sfiorava le labbra. Senza neanche pensarci, le dischiuse e lo lasciò entrare. Era la prima volta che lo faceva, la prima volta che glielo prendeva in bocca, che gustava il cazzo del suo uomo, e la cosa non gli dispiacque; anzi, lo caricò ulteriormente di rinnovata libidine.
Il sole, che intanto si era spostato, raggiungendo lo zenit, illuminava i due corpi lucidi di sudore, che si rotolavano sull’erba avvinghiati e tutt’ora persi l’uno con la testa fra le cosce dell’altro, intenti a succhiarsi e incuranti del caldo impietoso di mezzogiorno.
D’un tratto, Mont-Mercin si riscosse:
“Ti voglio…”, disse con voce arrochita dalla spasmodica tensione che stava vivendo.
Quasi non aspettasse altro, in un lampo Armand si svincolò dall’amante e si pose a quattro zampe, poggiando la fronte a terra, in attesa. Il cavaliere gli si accosciò dietro, gli allargò con le mani le natiche levigate e si chinò a baciare e leccare il minuscolo orifizio rosato. Lo riempì per bene di saliva, poi ci poggiò sopra la punta smussata del glande e iniziò a spingere.
Nonostante il leggero dolore che la forzatura dello sfintere gli procurava, Armand
accolse con un sospiro beato quella presa di possesso, che non solo lo gratificava eroticamente, ma soprattutto lo rendeva consapevole di essere lui il vero e unico trastullo amoroso del bel cavaliere: la regina era solo un incidente di percorso.
Si amarono ancora nel corso della giornata e il sole stava ormai tramontando, quando Mont-Mercin cominciò a raccogliere le sue robe e a rivestirsi.
“Devo andare, tesoro. – disse, dandogli ancora bacio – I cacciatori stanno per tornare e la regina mi cercherà… vorrà senz’altro sapere che fine ho fatto.”
“Cosa le dirai?”
“Che mi sono allontanato per un incontro segreto con il mio amore?”
“Non scherzare, Marcel.”, esclamò Armand, impallidendo.
“Non preoccuparti. Se posso, ti raggiungo stanotte.”, promise.
Armand rimase a guardarlo, mentre si allontanava, riallacciandosi il farsetto; poi raccolse anche lui i suoi abiti, si rivestì e si diresse dalla parte opposta.
***
“Sei sicura di quello che hai visto?”, chiese la regina, livida in volto, per quanto aveva appena sentito.
“Sì, vostra Maestà. – rispose la donna con voce sicura – Era quasi il tramonto, quando ho visto con i miei occhi il cavaliere di Mont-Mercin che usciva da dietro dei cespugli. Era tutto scompigliato e si stava rivestendo; ho pensato subito che era stato con una donna, forse una delle vostre damigelle…”
“Hai controllato?”
“Ho dovuto fare un giro lungo, vostra Maestà, per non farmi vedere dal cavaliere; ma quando sono arrivata sul posto, non c’era più nessuno; però si vedeva l’erba tutta calpestata, voi capirete che…”
“Sì, capisco. – la interruppe la regina - Vai, ora, e non parlarne con nessuno.”
La donna fece una profonda riverenza e andò via.
“E’ così, dunque… - disse fra sé la regina – Per questo non l’ho visto alla caccia. Ma se pensa di farsi gioco di me, si sbaglia di grosso. – e suonò il campanello -
Alphonsine, - ordinò alla damigella che si era affacciata alla porta - chiamami il capitano De Vauberge.”
De Vauberge era il capitano delle sue guardie, il suo personale scagnozzo, e la cosa non prometteva niente di buono.
***
Di buon mattino, Armand entrò nell’anticamera degli appartamenti reali, dove si stava riunendo il corteggio della regina. Mont-Mercin non si era fatto vedere quella notte e lui si sentiva un po’ in ansia, anche se non era preoccupato: evidentemente era stato convocato dalla regina o si sentiva troppo stanco per raggiungerlo.
Uscendo dalla camera della sovrana, Alphonsine gli fece un cenno impercettibile e lui, dopo un po’, si allontanò discretamente nella stessa direzione. La raggiunse in uno stanzino appena illuminato da un’alta feritoia. La ragazza era pallida e tremava.
“Armand, - gli chiese con tono angosciato – avete notizie del cavaliere di Mont-Mercin?”
“No. Cos’è successo?”
“Temo che sia nei guai.”
“Nei guai? Cosa intendi?”, fece Armand, sentendosi un gelo nelle vene.
La damigella si guardò attorno e gli strinse la mano, come a raccomandargli il silenzio.
“Ieri qualcuno lo ha visto…”
“Ma era…”
“Non era alla battuta di caccia: lo hanno visto nel parco ieri pomeriggio… sembra che abbia avuto un incontro con una donna...”
Armand si sentì cedere le gambe.
“La regina era furiosa… - proseguì Alphonsine - mi ha mandato a chiamare il capitano De Vauberge… Ho paura che lo abbia fatto arrestare.”
Armand era annichilito: conosceva la regina, era una donna terribilmente vendicativa.
“Vorranno sapere con chi era… lo tortureranno…”
No… No… No… si sentiva pulsare Armand nella testa. Non poteva permetterlo… non lo avrebbe permesso… doveva salvarlo!
La risoluzione gli si presentò istantaneamente nella testa.
“Devo parlare con la regina!”, disse, facendo per andarsene.
“Siete impazzito?”, cercò di trattenerlo la ragazza.
Ma Armand si divincolò e si lanciò per il corridoio: pochi istanti dopo bussava all’uscio della camera, in cui la regina si stava ancora abbigliando.
Nel vederlo così sconvolto, la regina congedò con un gesto le sue damigelle.
“Che succede, Armand?”, gli chiese preoccupata.
“Vostra Maestà…- iniziò il giovane, torcendosi le mani – sono qui per il cavaliere di Mont-Mercin…”
“Cosa ti interessa del cavaliere di Mont-Mercin?”, fece la donna con un lampo d’ira negli occhi.
Nella sua angoscia, Armand decise di giocarsi il tutto per tutto.
“Salvatelo, vostra Maestà… è tutta colpa mia…”
“Di che diavolo stai parlando?”
“Salvatelo… - ripeté il giovane, cadendo in ginocchio davanti a lei – ieri era con me, il cavaliere… è stato con me tutto il giorno…”
“Cosa c’entri tu?”, chiese gelidamente la regina.
“Ci amiamo, vostra Maestà…”
“Ah!”, fece lei con stizza, allontanandosi.
“Salvatelo…”, implorò ancora Armand, ancora in ginocchio.
“Da quanto tempo va avanti questa tresca?”, chiese la regina dopo un lungo silenzio.
“Da cinque anni, vostra Maestà…”
“Da prima, dunque…”
“Sì… Lui voleva lasciarmi quando… Ma sono stato io a insistere… Sono stato io… Lui vi ama… E’ tutta colpa mia…”
La regina lo fissava senza parlare: ira, incredulità, stizza tumultuavano nella sua testa.
“Punite me, vostra Maestà… - mormorò ancora Armand, chinando la testa – salvatelo… abbiate pietà.”
“Lo ami tanto, dunque?”, disse la donna con tono un po’ addolcito.
“E’ la mia vita.”
“Prenditelo, allora, – sentenziò la regina - ma lascerete entrambi la corte e lascerete al più presto la Francia. Non voglio più sentire parlare di voi.”, e con queste parole, si allontanò, uscendo dalla camera.
***
Due giorni dopo, una carrozza si allontanava veloce da Fontainebleau, diretta verso il porto più vicino. A bordo, il cavaliere dormicchiava, ancora malconcio e dolorante per i maltrattamenti ricevuti in carcere. Accanto a lui, Armand guardava con occhio vigile fuori dal finestrino la campagna che scorreva rapida ai loro lati. Uno scossone della carrozza sulla strada dissestata riscosse il cavaliere.
“Dove andremo?”, chiese ad Armand, prendendogli la mano.
“Per il momento lontano da qui il più presto possibile, - rispose quello – poi avremo il mondo davanti a noi.”
“Ti amo”, mormorò dolcemente il cavaliere.
Armand non rispose: sorrise, portandosi alle labbra la mano escoriata dell’amante.
“Senza rimpianti?”, chiese ancora Mont-Mercin.
Armand scosse la testa:
“Senza rimpianti.”, rispose, sporgendosi a baciarlo stavolta sulle labbra.

FINE
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