Gay & Bisex

Marcello


di Discobolo
01.04.2023    |    1.631    |    2 8.9
"Nel tragitto per il cambio del treno ci perdemmo di vista..."
Questa è una storia vera.
Quel giorno mi ero alzato di malumore. Non avevo granché voglia di andare a Roma in treno, ma non potevo farne a meno. Per i viaggi agli uffici dell’area da cui dipendeva la mia zona l’azienda non mi rimborsava il chilometraggio, ma solo il biglietto ferroviario.
Ero consulente tecnico-commerciale di una grossa multinazionale che produce sistemi di sicurezza. La mia zona ordinaria di lavoro era la Calabria, salvo incarichi a scavalco in zone limitrofe o missioni anche in zone più lontane, il che avveniva assai di frequente poiché, essendo uno dei più preparati tra tutti i colleghi, spesso ero incaricato per servizi di particolare dimensione o importanza anche fuori della mia zona.
Periodicamente, poi, ci convocavano al centro area, a Roma, per corsi di aggiornamento tecnico o per l’analisi dei risultati commerciali e lo studio delle strategie di mercato. Riunioni spesso, per me, superflue e noiose, per cui andavo quasi sempre malvolentieri.
L’unico risultato che mi consolava, nei miei spostamenti fuori zona, erano le nuove conoscenze che mi era possibile di fare ed i nuovi rapporti (spesso anche erotici) che riuscivo ad intrattenere, anche con persone veramente meritevoli ed interessanti.
Andare in treno, però, era per me assai scomodo e sgradito. Già la sola partenza rappresentava un problema complicato.
La mia abitazione è in una zona residenziale di una piccola cittadina limitrofa a Cosenza, mia sede di lavoro. Da lì qualcuno doveva accompagnarmi alla stazione, una enorme e prettissima “cattedrale nel deserto” che, per foraggiare le speculazioni di alcuni grossi politici, era sorta alla estrema periferia est di Cosenza, di là dal fiume Crati.
Oppure bisognava raggiungerla in macchina e lasciare questa al parcheggio della stazione per tutto il tempo dell’assenza, con tutti i rischi del caso.
Da Cosenza si prendeva una automotrice che, sul vecchio percorso ora abbandonato (che prevedeva anche un tratto in cremagliera) impiegava un’ora ed un quarto per coprire i venti chilometri (in linea d’aria) da Cosenza alla stazione di Paola, dove, dopo un lasso di tempo più o meno breve, si poteva prendere uno dei treni a lunga percorrenza.
L’automotrice da Cosenza arrivava a Paola sul binario “n. 1 – corto”, un binario morto staccato dagli altri. Poi occorreva andare al sottopassaggio e spostarsi al marciapiede dei binari n. 2 (verso sud) e n. 3 (verso nord).
Se la coincidenza era a distanza di pochi minuti, occorreva affrettarsi o si rischiava di perdere il treno, specie se l’automotrice accumulava qualche minuto di ritardo (il che avveniva di frequente) mentre i treni a lungo percorso, di norma “rapidi” (quelli che oggi si chiamano intercity) erano quasi sempre puntuali, specie quelli verso nord.
Tutto questo per dire che, quando l’automotrice di Cosenza arrivava a Paola, i passeggeri si accalcavano nella fretta di scendere, spesso facendo ressa nel corridoio dell’automotrice.
Così quel giorno.
Io avevo una grossa valigia che tenevo appoggiata a terra, spingendola avanti man mano che la fila avanzava verso la piattaforma di uscita. La mano destra ferma sulla maniglia della valigia, per non perdere tempo nei movimenti.
Da uno dei sedili, nel punto dove ero arrivato, tentava di uscire un signore di circa 50/55 anni, di media statura, corporatura snella, elegante, di bell’aspetto, con l’aria di un professionista di buon livello economico e sociale. Sembrava avesse molta fretta di uscire, per cui tentava di inserirsi nel corridoio già pieno, e lo faceva proprio sul punto dove stavo io con, alla mia destra, la valigia.
Nella smania di uscire, si sporgeva in avanti con tutto il corpo, per cui, forse involontariamente (pensai), appoggiò la zona della patta dei suoi pantaloni sul dorso della mia mano che reggeva la valigia.
Un po’ perché anch’io ero attento e fremente per la discesa, un po’ perché quel contatto non mi fece né freddo né caldo, non scostai la mano, per cui mi godetti il calduccio del suo molle strumento per alcuni minuti.
Ma mi accorsi che il contatto non era casuale. L’uomo non stava fermo. Si dondolava avanti e indietro, per cui aumentava e diminuiva, alternativamente, la pressione sulla mia mano; poi prese ad ondeggiare di lato, per cui, ben appoggiato alla mia mano, la strusciava a destra ed a sinistra con la sua protuberanza.
La cosa cominciava a divertirmi. Quando la fila si mosse mi spostai in avanti e si interruppe il contatto. Io, un po’ ironico e un po’ provocante, lo guardai e gli feci un sorriso.
Riuscì ad inserirsi nella fila subito dietro a me e, senza apparente malizia, ogni movimento era buono per strofinare il suo pacco sulle mie natiche. Ma visto che il pacco restava sempre molle, veramente pensai che fosse per caso e non gli diedi ulteriore importanza.
Nel tragitto per il cambio del treno ci perdemmo di vista. Io cercai il mio posto vicino al finestrino, prenotato sul rapido, sistemai per bene la valigia sulla reticella, mi misi comodo e cominciai a dedicarmi ad un giornaletto di enigmistica con il quale ero solito trascorrere il tempo nei miei viaggi ferroviari.
Avevamo lasciato Paola da circa quarantacinque minuti, quando, con la coda dell’occhio, vidi una figura che, dopo essere passata nel corridoio davanti al mio scompartimento (dove c’erano già altri cinque viaggiatori), era tornata indietro e si era fermata.
Istintivamente alzai la testa e i nostri sguardi si incrociarono. Lo riconobbi: era l’uomo della automotrice.
Mi guardò con intenzione, mi rivolse un sorriso, poi fece un cenno con la testa come per dire “io vado più in là”, e si spostò.
Lasciai passare un paio di minuti, poi, con l’aria di chi vuole sgranchirsi un poco le gambe, mi alzai, scavalcai, profondendomi in scuse, le gambe dei miei compagni di viaggio ed uscii dallo scompartimento, fermandomi nel corridoio davanti ad esso.
Lo vidi. Si era fermato sulla piattaforma all’estremità del vagone ed, attraverso il vetro della porta chiusa controllava il corridoio. Mi guardava fisso senza abbassare un attimo gli occhi. Né io sono il tipo da abbassarli. Ci guardammo per alcuni minuti.
Dopo una breve riflessione sul modo più opportuno di comportarmi, mi decisi. Lo raggiunsi sulla piattaforma, lo salutai, chiedendogli, tanto per rompere il ghiaccio: “Ma lei è di Cosenza?”
“No”, mi rispose, “sono di Cerisano, ma vivo a Roma. Sono venuto perché sto ristrutturando la vecchia casa paterna, perché vorrei ritornare in vecchiaia al mio paese.” Poi mi chiese se io ero di Cosenza.
Gli spiegai che ero siciliano, ma che vivevo ormai da oltre quindici anni a Cosenza per lavoro, e ci sarei rimasto ormai definitivamente.
Parve contento della mia risposta. Continuammo a chiacchierare sulle nostre attività lavorative e su altri argomenti generici sulle nostre persone. Intanto ci stavamo studiando vicendevolmente.
Ad un certo punto mi si accostò, come spinto da un improvviso scarto del treno, e mi appoggiò il dorso di una mano sulla patta. Il mio amico “Ciccio” (come io lo chiamo), che la situazione aveva già messo in aspettativa, non perse tempo a rizzare la testa ed a farsi grosso e duro. Lui, allora, con molta faccia tosta, girò la mano, lo afferrò a piena mano da sopra i pantaloni e mi disse (dandomi per la prima volta del tu): “Fai presto ad eccitarti!”
“Dipende dagli stimoli.” Gli risposi sorridendo. Cominciò a muovere la sua mano su e giù, lentamente, dolcemente.
Mi sembrò cortese ricambiare, ma il suo oggetto, malgrado le mie attenzioni affettuose, rimaneva penzoloni, come un sacchetto vuoto, molliccio come una salsiccia mal riempita.
Non sottolineai la cosa per paura di offenderlo. Ma fu lui a dirmi, con un sorriso amaro: “Eh, a me non mi funziona più. Ma mi piace tenere in mano quelli che funzionano ancora.”
Il punto in cui ci trovavamo era abbastanza tranquillo. Attraverso la porta, vetrata solo nella parte alta, controllavamo il corridoio della vettura; anche le porte del passaggio di collegamento col vagone che ci precedeva chiuse e parzialmente vetrate, ci consentivano di controllare eventuali arrivi da quella parte. Non c’era nessuno.
Lo feci girare verso il finestrino e mi piazzai dietro a lui, appoggiando la punta del mio trapano tra le sue natiche, mentre con una mano cercavo disperatamente, pur se all’esterno dei pantaloni, di ottenere un segno di risposta, un guizzo di vita dal suo salsicciotto. Niente! Ma lui dimostrò di gradire il mio gesto, strusciandosi ancora di più contro di me, come se volesse farsi penetrare attraverso la stoffa.
Per diversi minuti pomiciammo in quel modo. Lo vedevo felice di avermi eccitato, gli piaceva il mio Ciccio, lo carezzava, lo stringeva con la mano, poi tornava a piazzarlo contro il centro delle sue natiche e sculettava, spingendo all’indietro.
Con la mano libera lo abbracciai e lo strinsi verso di me. Lo baciai sul collo, sotto l’orecchio. Odorava di pulito, di borotalco, di bagno appena fatto, di dopobarba di gran marca: mi eccitava sempre di più.
Mi disse: “Vorrei baciartelo.”
“Non qui”, gli risposi, poi “Aspetta.” Aprii la porta della vicina toilette e guardai dentro. Era stranamente pulitissima. Gli feci cenno di entrare, e lui entrò. Diedi un’ultima occhiata di controllo ai corridoi dei due vagoni: non c’era nessuno.
Entrai anch’io e chiusi la porta.
Lui mi guardò languido e mi chiese: “Posso darti un bacio?” Gli dissi che non mi era mai accaduto di stare con un uomo, che non sapevo come avrei reagito; era un rischio. Non volle rischiare.
Abbassò la tavoloccia del water, vi si sedette sopra, poi mi attirò più vicino e mi slacciò la cintura dei pantaloni, abbassò lo zip e si trovò davanti la cappella di Ciccio che da sola era uscita dall’apertura dei miei boxer.
Lo prese in mano, lo guardò come fosse un oggetto d’arte, cercando di girarlo da tutti i lati. Disse: “Che bello!... ha la punta sottile, la cappella piccola, ma al centro diventa un gigante. E quanto è lungo!... Mai ne ho visto uno così robusto.”
Così dicendo, accostò le sue labbra alla cappella, e Ciccio gradì molto quel contatto.
Cominciò con un bacio di labbra. Poi la punta della lingua saettò fuori come quella di un serpente, come se volesse penetrare il buchino dell’uretere.
Quindi aprì la bocca e lo fece penetrare per una decina di centimetri. Si fermò. La lingua, adesso distesa ed allargata al massimo, abbracciava metà della circonferenza e metà della lunghezza; il labbro superiore ed il palato completavano l’abbraccio. Come se non avesse denti in bocca.
Al mio cervello arrivava una dolcissima sensazione di caldo umido, come se Ciccio stesse beandosi dentro una sauna. I testicoli, sollecitati da una carezza della sua mano, secernevano testosterone a più non posso. I corpi cavernosi, chiusi, imprigionavano tutto il sangue in arrivo, rendendo il membro teso, duro come il marmo, con l’intera pelle stirata e lucida, senza piega alcuna intorno al colletto del glande: eccitato allo spasimo.
Le fibre nervose vibravano, contraendosi in fibrillazione, con frequenza crescente.
Lui, immobile, si gustava quel torrone che gli riempiva la bocca. Aveva gli occhi chiusi ed una espressione di estasi.
Poi lentamente, molto lentamente, cominciò a muovere la testa.
Succhiandolo con tutta la forza delle sue guance, lo estraeva millimetro a millimetro finché nella bocca non rimase che la cappella. Allora invertì il movimento: lo faceva di nuovo penetrare, strusciando la lingua distesa sulla zona del frenulo da cui trasmetteva violenti spasmi di piacere alla spina dorsale. Da qui quelli correvano verso l’alto, e poi a ventaglio sul ventre e sul petto, nel collo ed in gola fino a scoppiare dentro il cervelletto come un petardo di mille colori.
Fra poco avrei inondato quella bocca di liquido denso, caldo, bianco, vischioso.
Andò avanti e indietro ancora tre volte, con studiata lentezza, poi quattro, poi cinque, ed a sei qualcosa si mosse, dal basso pulsava la mia asta impazzita. Capì e si fermò.
Mi chiese: “Vuoi prendermi il culo?” Feci un cenno di sì.
Si alzò, slacciò i pantaloni e se li abbassò insieme allo slip di filanca. Aveva un bel culo, alto, rotondo, dalla carnagione candida e setosa, sodo e sporgente, ancor più evidente perché si era appoggiato al lavabo, voltandomi la schiena.
Sputai un po’ di saliva sui polpastrelli dell’indice e del medio della mia mano destra che tenevo uniti, gliela spalmai sul buchetto, nel quale poi introdussi la prima falange del medio, ruotandola dentro. Emise un lungo mugolio di piacere.
Estrassi il dito. Aggiunsi un altro po’ di saliva. Poi vi appoggiai la punta del glande, ancora bagnato della sua saliva. Feci un po’ di pressione. Lui sapeva come rilassare il suo sfintere. Lo penetrai facilmente, e lui ripeté con voce più marcata il suo gemito di piacere.
La pausa fra le due posizioni mi aveva alquanto calmato. Ripresi a pomparlo, e sentivo il calore del suo deretano che, a guisa di un guanto di velluto, vellicava tutto intorno il mio membro.
Lo afferrai sui fianchi con ambo le mani ed affondai dentro a lui. Il ventre andava ad impattarsi con le sue natiche, procurandomi ulteriori sensazioni ed una maggiore eccitazione.
Lo carezzavo sui fianchi. Gli strusciai le mie unghie, di entrambi le mani, su tutta la schiena, facendolo fremere e tremare: “Oh, sì! Bello… bello… ancora…!”
Appoggiai le mani sulle sue spalle traendolo a me e costringendolo a sollevarsi diritto. Gli girai un poco la testa e lo baciai sul collo, poi presi il lobo del suo orecchio tra le labbra, lo leccai, lo succhiai, soffiando col naso dentro il suo orecchio. Mi disse: “Sento piacere, ma non ti stancare. Ti ringrazio per quello che vuoi farmi, ma non riesco a farlo tornare duro. Comunque sto godendo lo stesso, godo che sento che tu godi di me!”
Lo baciai ancora. Il bacino ormai andava da solo, non accettava più ordini o consigli.
Due, tre, quattro colpi più a fondo, più forti e… il vulcano eruttò prorompente, lavando, bruciando, riempiendo quel culo gentile e garbato, così disponibile e caro.
Restammo accoppiati finché non mi si rammollì.
Poi ci lavammo per bene. Con grande precauzione uscii per primo dalla toilette. Guardai a destra e a sinistra: non c’era nessuno. Bussai due colpi, ed anche lui mi raggiunse sulla piattaforma.
Restammo ancora a parlare fino a pochi minuti dall’arrivo a Roma. Non più toccamenti e carezze: come due buoni amici.
“A proposito, come ti chiami?”
“Marcello”, mi rispose, “e tu?”
“Guido.”
“Sei sposato?”
“Si, ed ho anche tre figli.”
“Anch’io sono sposato, ma non ho figli. Vorrei tanto che tu conoscessi mia moglie. Io non sono più buono a darle piacere. Sarei felice se lo volessi fare tu. Credo che anche lei ne sarebbe contenta. Naturalmente, se ti va.”
“Ne sarei ben lieto anch’io, fatti sentire quando torni a Cerisano, e ne riparliamo.”
Gli diedi il numero del mio cellulare.
Lui non mi diede nessun dato per poterlo rintracciare.
“Ti chiamerò”, mi disse, mentre ci salutavamo nella grande sala di ingresso della Stazione Termini.
Non mi chiamò mai più.
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