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Valentin - Un giorno di settembre


di honeybear
19.03.2013    |    6.982    |    2 9.6
"Non mi sbagliai: mi afferrò nuovamente alla nuca imprimendo alla mia opera un ritmo sempre più serrato fino a che il suo piacere non mi esplose nella cavità..."
La torrida estate passò abbastanza velocemente cedendo il passo ad un mite e piacevole settembre.
Il lavoro in ufficio procedeva secondo gli schemi consueti: la crisi continuava a mietere impietosa le sue vittime e noi non costituivamo eccezione. Fortunatamente il pericolo di chiudere baracca e burattini venne scongiurato dalla possibilità di assicurarci un cliente importante.
Come sempre, mi toccò l’ingrato compito di sobbarcarmi quell’onere: dormendo una media di cinque-sei ore a notte, riuscii a preparare un contratto che mi pareva soddisfacente per tutte le parti coinvolte.
La sottoposi orgoglioso al mio capo che, serafico mi rispose:
“Sì, può andare… Il testo definitivo mi serve per questo pomeriggio alle 15.00…”
Mi cedettero le ginocchia: erano le 11.30 e, considerando il carico di stress e stanchezza accumulati, era già tanto se mi rimanevano forze a sufficienza per tornare a casa la sera.
“Ma lei ha detto che i clienti non sarebbero arrivati che settimana prossima!”
“Non è vero! Guarda l’ho scritto persino qui sull’agenda…”
“Peccato che ha omesso di comunicarmi la notizia…”
Senza dargli il tempo di ribattere scesi nel mio ufficio per cercare di riorganizzarmi le idee.
Non riuscii a combinare molto più di quanto avevo già fatto e me ne tornai a casa per il pranzo. Con il Dottore alla fine concordammo d’inventare qualche balla temporeggiando con i clienti nell’attesa di stilare il contratto definitivo.
Stanco e scoraggiato, tornai in ufficio vestito di tutto punto: io odio le giacche e odio ancor di più le cravatte… Se a questo si aggiungeva il fatto che durante l’incontro avrei dovuto arrampicarmi sui vetri per fornire una serie di motivazioni plausibili riguardo i nostri ritardi nel preparare quanto richiestoci, il mio stato d’animo non era sicuramente dei migliori!
A peggiorare le cose, squillò il telefono. Era il Dottore. M’informava che un impegno imprevisto l’avrebbe impossibilitato a prendere parte all’appuntamento:
“ Le puttane che ti scopi, adesso si chiamano imprevisti!” imprecai mentre andavo ad aprire la porta. Sulla soglia, con mia grande sorpresa, si presentò Valentin.
Non lo vedevo dal giorno in cui mi aggiustò la sedia.
“Il Dottore mi ha detto che devo riparare alcune cose nel suo ufficio…”
“Ma non è possibile – strepitai - Tra circa mezz’ora arriveranno dei clienti importanti per firmare un contratto che non è nemmeno pronto?”
Era decisamente la goccia che faceva traboccare il vaso: ci mancava Valentin ad animare un pomeriggio che già prometteva bene!
Incazzato come una iena, stavo per avere una crisi isterica.
Non so come, riuscii a calmarmi. Suonarono nuovamente alla porta. Questa volta erano i nostri clienti. Li feci accomodare al piano di sopra nella grande sala riunioni, un ambiente molto grande e luminoso, arredato con estremo buon gusto personalmente dal mio capo con mobili ed oggetti antichi che, credo, gli siano costati un piccolo patrimonio.
L’incontro si risolse brillantemente e, ancor meglio, velocemente.
I clienti, accompagnati dal loro avvocato, ebbero modo di esaminare con calma quanto avevo scritto. Ne chiesero una copia per apportare alcune modifiche non essenziali e chiusero la riunione in maniera entusiasta.
Di Valentin nemmeno l’ombra: il pericolo di dover giustificare in maniera imbarazzata i suoi continui passaggi con scale, chiodi, pennelli e chissà cos’altro era scongiurato.
“Bene. Direi che possiamo ritenerci soddisfatti. Ha fatto davvero un ottimo lavoro!”
“Grazie. Ne è valsa la pena, dati i benefici che il contratto apporterà a tutti quanti. Aspetto il file aggiornato con le indicazioni dell’avvocato. Poi chiedo gentilmente di lasciarmi un tempo ragionevole per sistemare gli ultimi dettagli. Se siete d’accordo farò in modo di predisporre tutto per la firma entro la fine della settimana prossima”.
“Ottimo!”
Ci alzammo e li accompagnai al piano di sotto per congedarli con una vigorosa stretta di mano.
Nel richiudermi la porta alle spalle, mi ci appoggiai tirando un sospiro di sollievo: avevo concluso un contratto favoloso e, ancora una volta, grazie alla superficialità del mio titolare me ne potevo prendere il merito esclusivo!
L’euforia lasciò nuovamente il posto ad un senso di torpore e stanchezza: guardai l’orologio. Era un po’ troppo presto per tornare a casa. In ufficio non c’era un’anima.
“Ma sì, chissenefrega! Per una volta non succederà nulla!” mi dissi, per giustificare ciò che stavo per fare.
Risalii velocemente le scale, tolsi le scarpe e mi sdraiai sul divano verde.
Avvertivo un leggero mal di testa e sentivo le palpebre pesanti. Le tempie pulsavano. Me le massaggiai, respirando profondamente continuando a focalizzare i momenti di quella gloriosa giornata.
Decisi di darmi una rinfrescata utilizzando l’elegantissimo bagno del capo.
L’acqua che scendeva leggera dal prezioso rubinetto dorato mi dava una piacevole sensazione di benessere. Mantenendo gli occhi chiusi continuai ad inumidirmi le tempie che avevano smesso di pulsare.
Percepii come un leggero spostamento d’aria: sollevai le palpebre e lo vidi riflesso nello specchio dietro di me.
Mi guardava sorridente e compiaciuto. Aveva nello sguardo la stessa luce birichina del nostro primo incontro. Una luce che significava che voleva qualcosa. Qualcosa che la volta precedente non era riuscito ad ottenere.
“Valentin…” richiusi gli occhi.
Due mani forti mi sfilarono la giacca gettandola a terra.
“Giornata pesante oggi…”
Dopo avermi slacciato i polsini, il mio uomo iniziò a dedicarsi agli altri bottoni, ed in un lampo mi scoprì addome e torace lasciando penzolare la cravatta.
“Che eleganza!” ironizzò.
Le mani grosse, presero a vellicare i peli del mio petto per poi strizzarmi i pettorali cercando di avvicinare i capezzoli che s’inturgidirono in un istante.
Sentii la sua bocca sul suo collo, il morso leggero e poi la carezza della lingua, che scorreva fino alla linea dei capelli, per scivolare verso un orecchio, vi si incuneava, ripassava all’esterno, poi spariva lasciando il posto ai denti che mordicchiavano il lobo.
Il pizzicore che, il passaggio della barba di qualche giorno provocava sulla mia pelle, accompagnando l’azione, non faceva che accrescere i brividi di piacere che iniziavano a pervadermi.
La camicia scivolò via leggera dalle mie braccia e, insieme alla cravatta, raggiunse la giacca.
Se è vero che ad azione corrisponde reazione, anche le parti basse cominciarono ad animarsi. Quelle di Valentin erano già a metà dell’opera, almeno a quanto mi era dato di sentire dalla pressione praticata a livello dei glutei.
Riaprii gli occhi per godermi lo spettacolo ma il suo viso era scomparso: vedevo solo le sue mani che allentavano la mia cintura, abbassavano la zip e slacciavano i pantaloni.
L’azione della sua lingua e delle labbra si stava infatti concentrando sulle scapole correndo lungo la schiena ad aiutare le mani che, conclusa l’opera di svestizione, si divertivano a palparmi il cazzo attraverso la stoffa dello slip, allentando e stringendo la presa per farmelo rizzare ulteriormente.
Il gioco era solo iniziato. Valentin, che mi aveva lasciato in mutande, si stava dedicando ad una scena degna del miglior film porno: abbassarne lentamente l’elastico usando i denti.
Dovetti afferrarmi con forza al piano del lavandino: mi sentivo vacillare, preso com’ero da quel vortice di piacere in cui ero finito.
La mia erezione si era nel frattempo fatta imponente grazie alla mano che (letteralmente) lui mi stava dando. La cappella implorava di essere liberata dal supplizio del tessuto che la imprigionava. Valentin non fu di quell’avviso. Completata l’azione sugli slip (diciamo che me li sentivo a metà chiappa), aveva preso a lavorarmi i peli del culo, insinuandosi con la lingua a solleticare il buchetto di carne che, fuori da ogni mio controllo, si contraeva come un cuore impazzito. Le sue mani, ora negli slip, continuavano rudemente a massaggiarmi il cazzo e i coglioni.
Il gioco durò alcuni minuti. Mantenni i miei occhi chiusi fino a quando non mi sentii afferrare per i fianchi e voltarmi. Guardai in basso.
La lingua di Valentin aveva iniziato a leccarmi le mutande nella zona della cappella. La sua saliva si mischiava al liquido pre-spermatico che producevo copiosamente disegnando una macchia che si allargava a vista d’occhio. Le pulsazioni s’intensificavano: non sarei riuscito a contenermi ancora.
Lui lo capì. Usando rigorosamente i denti, mi liberò definitivamente dalla sofferenza. Contemporaneamente m’invitò a sedermi sul piano di preziosissimo marmo bianco del lavandino. Mi spalancò le gambe e con la lingua prese a percorrere la distanza tra la mia cappella e l’ano. Con la sola punta solleticò soprattutto la zona del frenulo per poi accarezzarla integralmente con un rapido passaggio dei denti. Come un equilibrista passeggiò lungo l’asta tesa all’esasperazione scendendo fino allo scroto che s’infilò in bocca succhiandolo come si fa con una ciliegia matura. Insalivò tutto il perineo e, giunto alla meta, soffiò delicatamente all’interno dell’ano. Un bacio e ripetè il percorso inverso.
Il piacere prodotto da quel trattamento, per un momento mi fece vacillare: fui costretto a puntellarmi con i gomiti al piano di marmo per non cadergli malamente addosso.
Alla fine trovai una posizione ancora più appagante: gli serrai saldamente la testa tra le cosce per fargli capire che il mio piacere era pronto a riversarsi ovunque ritenesse opportuno. E il desiderio chiedeva di essere soddisfatto immediatamente.
Lui non fece altro che appoggiare le labbra sulla cappella facendo scomparire l’uccello in bocca. La lingua tornò a roteare vorticosamente sulla cappella picchiettando sulla zona del frenulo ed introducendosi con dolcezza nell’orifizio mentre la testa si alzava e abbassava con movimenti ritmici.
Le mie resistenze erano pronte a cedere piuttosto rapidamente.
Uno, due, mille gemiti di piacere ed un senso di vertigine, di smarrimento mi presero nel sentire il liquido denso e cremoso riversarsi nella sua bocca. Non deglutì. Preferì invece spalmarmelo sull’asta che lentamente tornava in posizione di riposo.
La vertigine, lo smarrimento, mi svuotarono di ogni forza. Ma era davvero smarrimento? O era desiderio? Perché il mio corpo, stremato ed ansimante, si preparava ad accendersi nuovamente immaginando quel che sarebbe seguito: nulla avrebbe potuto fermare Valentin e comunque non avevo nessuna intenzione di ostacolarlo…
Non potei indugiare oltre nei miei pensieri: Valentin reclamava la sua ricompensa.
Si rialzò e, allargandomi le gambe, mi si parò davanti. Mi rimisi seduto e gli levai la maglietta scoprendo ancora una volta il suo corpo atletico: le spalle larghe, il torace muscoloso, i peli che formavano una croce, più densi sotto i pettorali e nella parte centrale del torace, più radi altrove, le braccia vigorose. Il mio sguardo scese fino al ventre dove, complici i pantaloncini scivolati piuttosto in basso, faceva bella mostra di sé la fitta peluria del pube.
Le nostre labbra si sfiorarono, le nostre lingue si incrociarono: sentivo il sapore acidulo del mio sperma nel suo palato. Mi adoperai a lungo per restituirgli il favore fattomi mentre mi spogliava. Le mie mani, comprimevano i suoi pettorali d’acciaio mentre i pollici preferirono giocare coi capezzoli, usandoli come pulsanti.
Mugolò. Sospirò mentre avvicinava la sua testa alla mia.
Le mani, avide, presero a percorrere la linea dei suoi fianchi dove si apprestavano a levargli l’inutile, lasciandolo ancora una volta,con indosso i soli scarponcini da lavoro.
Lui mi fermò prontamente allontanandosi leggermente da me. Ebbi così modo di ammirare la perfezione di quel corpo prendendo a massaggiare la stoffa che racchiudeva il mio premio
L’idea di Valentin era come sempre un’altra e ciò che aveva in mente, se da un lato mi spaventò leggermente, dall’altro non fece che accrescere il mio stato d’eccitazione.
Mi bendò gli occhi con la cravatta, mi fece girare un paio di volte su me stesso e mi lasciò.
Avvertii un leggero senso di vertigine; poi protesi le mani verso il punto in cui credevo si trovasse. Mi accolse la sua bocca che succhiò le mie dita indicandomi la direzione da seguire. Le guidò a sfiorargli le labbra e il mento per poi lasciarle libere di spaziare lungo il collo, le spalle possenti, il torace, la linea degli addominali.
L’ispezione si concluse in corrispondenza del folto cespuglio nero del pube dove, come la volta precedente, agganciai l’elastico di pantaloni e mutande facendo scivolare all’interno l’intera mano impaziente che cominciò a masturbare una mazza già dura.
La lingua fece il resto percorrendo il petto villoso spostandosi ad insalivare e suggere i capezzoli. Seguendo l’esempio delle dita, riprese la strada verso il basso imbattendosi nella folta peluria del pube che leccò per benino. Il naso ne aspirò invece l’aroma selvaggio.
Mi arrestai all’altezza della cintola per sfilargli i pantaloni.
A quel punto Valentin si chinò su di me: mi sentii prendere le mani e spostarle dietro la schiena per legarle con qualcosa. Era la mia cintura. Ciò mi obbligava a liberarlo degli inutili slip come aveva fatto con me: addentandoli. Completata l’operazione (ci volle un po’ di tempo! Del resto la mia esperienza non era molta) feci per alzarmi e chiedere in premio un meritato bacio.
Con una leggera pressione Valentin mi fece rimanere in posizione.
Cominciò a schiaffeggiarmi con il suo manganello che si era fatto di puro acciaio. Evidentemente gli piaceva l’idea di far scontrare la parte sensibile della cappella con il mio leggero strato di barba per poi repentinamente infilarmelo fin dove la mia avida gola era in grado di accoglierlo. Ad ogni ingoio mi pareva che l’uccello si facesse sempre più duro; ed anche il mio non era indifferente al trattamento dal momento che l’erezione chiedeva impaziente di essere placata.
Accelerò il ritmo di scopata: credo stesse per venire. Fu così che mi fece alzare ed iniziò a sciabolare il suo cazzo contro il mio. Pochi colpi decisi; poi lo abbassò masturbandosi sul mio perineo.
“Vorrà farci venire in contemporanea…” mi sorpresi a pensare mentre il mio cazzo batteva contro la cortina degli addominali. Pregai a che ciò avvenisse in fretta: l’erezione si era fatta estremamente dolorosa ed il fiume di sborra era pronto a riversarsi sul ventre.
Possibile che dai miei gemiti non capiva che stavo arrivando al capolinea?
Senza dire una parola si allontanò da me:
“Ecco finalmente…” credo che i miei lineamenti si distesero, certo che avremmo concluso anche quel round.
Invece no!
Mantenendomi bendato e legato mi condusse, tenendomi per l’uccello, nella sala riunioni.
Qui me lo fece appoggiare sul piano massiccio del tavolo in legno facendomi allargare le chiappe.
Il freddo contatto con il materiale accentuò ancora di più il dolore dell’erezione e la voglia di venire si stava facendo letteralmente incontenibile.
Per tutta risposta Valentin scivolò sotto il tavolo riprendendo a giocare con i miei coglioni ed il mio culo. I primi se li faceva ballonzolare tra le mani per poi infilarseli in gola uno alla volta succhiandoli, il secondo preferiva tormentarmelo con le mani che, riunitesi in corrispondenza del solco delle chiappe, presero a spalancarlo lasciando in bella mostra l’ano che pulsava impazzito.
“Valentin…” mormorai. Non riuscii ad aggiungere altro. Ero allo spasimo. Iniziai a contrarre e rilasciare i glutei freneticamente mentre in maniera altrettanto incontrollata il mio cazzo aveva iniziato ad inondare il tavolo con fiotti di sborra da record.
Lui si alzò e gentilmente mi guidò a leccare ogni singola goccia con cui avevo imbrattato il piano. Si sostituì a me, appoggiando le chiappe là dove prima avevo appoggiato il cazzo e con una pressione leggera e decisa mi fece inginocchiare davanti alla sua erezione.
Mi prese alla nuca spingendomi la testa verso la cappella che ingoiai fino a farmi entrare l’intera mazza in gola. Ebbi un conato: non riuscendo a vedere cosa e quanto stavo infilandomi in bocca, era difficile prendere bene le misure!
Un breve colpo di tosse, di nuovo in bocca tutto quel ben di dio e via di pompino!
La cecità indottami dal bendaggio e l’impossibilità di muovere le mani rimisero in moto la mia eccitazione. Inondavo di saliva l’uccello del mio uomo, sfilandolo giusto il tempo di far cadere qualche rivolo di saliva sul mio membro che non voleva starsene a riposo. Al contrario, si animò con la stessa velocità con cui succhiavo.
Valentin mugolava e sbuffava: mi sembrava un toro pronto alla carica. Immagino che per aumentare il suo piacere, non potendo io toccarlo, provvedesse da solo, magari titillandosi i capezzoli e arrivando ad accarezzarsi il ventre, mentre lo lavoravo ai piani bassi.
Sentivo la sua mazza pulsare e contrarsi all’interno della mia bocca, pronta ad offrirmi la sua ambrosia di lì a poco. Non mi sbagliai: mi afferrò nuovamente alla nuca imprimendo alla mia opera un ritmo sempre più serrato fino a che il suo piacere non mi esplose nella cavità orale.
Si abbassò per baciarmi e pulirmi le labbra di quanto mi ero lasciato colare.
Ci rialzammo. Mi slegò e mi sbendò. Entrambi eravamo sudati ma felici. Ci abbracciammo e ricominciammo a baciarci dolcemente.
Sentivo che il meglio doveva ancora arrivare e che Valentin, mettendo alla prova le reciproche resistenze, stava per regalarci qualcosa d’indimenticabile!
Come nel più classico dei film, squillò il telefono.
Corsi a rispondere: era il mio capo che voleva sapere dell’incontro. Lo informai di quanto era accaduto mentre continuavo a menarmi l’uccello per non fargli perdere vigore.
Riattaccai e mi diressi in bagno a recuperare i vestiti; tornai in sala riunioni.
Valentin aveva protetto con una coperta il prezioso tappeto persiano accanto al divano verde di cui aveva sistemato a terra due cuscini.
La visione che si presentò quando varcai la soglia mi tolse il respiro: sdraiato su un fianco, si teneva la testa con la mano il cui gomito affondava nel cuscino, una gamba piegata a triangolo e appoggiata a quella del fianco su cui era disteso. Il braccio libero accarezzava un cazzo così in tiro da arrivargli fino all’ombelico, la peluria che lo ricopriva risplendeva alla sole del tardo pomeriggio che ombreggiava egregiamente i più intimi dettagli di quella scultura greca.
“Ha detto che per oggi non rientrerà…” fu l’unica cosa che gli dissi prima di coricarmi accanto a lui con la pancia tra la coperta ed il cuscino.
Valentin sorrideva con gli occhi e con la bocca, e prese a seguire con una mano lungo le mie curve.
Il mio desiderio era bruciante, almeno quanto il suo.
Il mio sguardo si spostò verso il ventre e si fermò su quell’uccello che di lì a breve avrei accolto dentro me. Guardai la cappella rossastra, il candore dell’asta, la perfezione del disegno dei peli pubici e pensai:
“Tra non molto questo cazzo mi entrerà in culo. Adesso sono pronto. Sì, lo voglio. Voglio soddisfare quest’uomo, questo dio, con tutto me stesso”.
Il morso alla natica sinistra mi riportò alla meravigliosa realtà: infine lasciai che la testa si liberasse da ogni pensiero.
A strapparmi un gemito fu la sua lingua, che prese a scorrere decisa nell’incavo tra le natiche, premendo sull’ano, cercando di forzarlo com’era avvenuto quel pomeriggio nell’ufficio da basso. Non essendo compito suo, indugiava appena nel pertugio, poi si spostava verso l’alto, scendeva nuovamente per esplorare nuovi centimetri di pelle. Accarezzarli. Sfiorarli soavemente; poi erano nuovamente i denti a mordere decisi.
Non avrei saputo descrivere le mie sensazioni in quel momento. Sicuramente erano sensazioni forti, inusuali, inaspettate per quanto io fossi pronto ad accettare quel che stava per accadere... Del resto mai, prima di quel pomeriggio il mio corpo era stato nelle mani di un altro uomo.
Il desiderio premeva violento, ma Valentin non voleva cedere: voleva gustare, e farmi gustare, ogni attimo di quel rapporto.
Sapeva che stava per cogliere un frutto cui nessuno prima di lui era arrivato. E, credo volesse che anche per me quel momento fosse indimenticabile.
A lungo le sue mani, la sua lingua, le sue labbra accarezzarono, strinsero, solleticarono. Percepivo la sensazione che Valentin cercava di dominare il desiderio travolgente di penetrarmi, mentre i suoi attacchi annientavano le mie più che deboli difese: non opponevo resistenza alcuna, ero completamente, unicamente in sua balìa.
Venne il momento. Mi fece sistemare meglio alzandomi leggermente i fianchi ed abbassandomi le spalle.
Allargandomi i glutei con le mani, avvicinò la cappella allo sfintere. Lo sentii sputare ed immediatamente percepii la sua saliva colare lungo quel solco cui si era così a lungo dedicato: ora la distribuiva uniformemente attorno al mio ano per lubrificarlo prima della penetrazione. Altrettanto fece per lubrificare il suo membro.
Appoggiò appena la punta sull’apertura e lentamente, ma inesorabilmente, la introdusse. Il mio corpo non si tese, ma si afflosciò ancora di più, in un abbandono totale.
Lentamente Valentin avanzò, spingendo. La carne cedeva a fatica. Si arrestò dandomi una lieve carezza lungo la schiena. M’invitò a sollevarmi leggermente per voltarmi e baciarlo.
Nel momento in cui gli sfiorai le labbra, spinse a fondo.
Gemetti, ma il palo avanzava inarrestabile: il frutto cui tanto anelava venne infine colto.
A quel punto si ritrasse, estraendo quasi completamente l’uccello dal mio corpo, per poi riaffondarlo, sempre lentamente, come una spada che trafigge il cuore. Tornò ancora indietro, mentre io, incapace di accogliere un piacere incontenibile, iniziai a mordere il cuscino su cui poggiavo, soffocando i gemiti di piacere.
Spinse ancora più forte, penetrando più a fondo per poi tornare ancora una volta indietro, con lentezza, suscitando nuovi gemiti.
La spada infine trapassò il cuore senza pietà, spingendosi fino all’estremo limite.
Gridai stringendo il cuscino con una forza tale da rischiare di strapparne la stoffa.
Ora che aveva conquistato la postazione voluta, il gioco delle mani riprese senza sosta. Le sentivo dovunque: sulla schiena, sulle spalle, tra i peli pubici, mentre premevano sui coglioni nuovamente desiderosi di svuotarsi del loro contenuto, sul mio uccello teso all’inverosimile che, imperterrite masturbavano, e lungo l’addome fino ad arrivare ai capezzoli.
A lungo rimanemmo così; poi Valentin, senza uscire da me, si girò su un fianco accompagnandomi nel movimento e mantenendomi la gamba sinistra sollevata e piegata.
Incominciò a muovere il palo avanti e indietro nella carne che cedeva, mentre la sua mano non smetteva di dedicarsi all’uccello. La tensione nel mio corpo cresceva e regolò i suoi movimenti in modo che raggiungessimo insieme l’orgasmo.
Quando sentì che avevo superato il punto di non ritorno, spinse con forza, strappandomi un nuovo gemito ed insieme versammo il nostro seme, Valentin nelle mie viscere ed io sul mio petto.
Si rovesciò sul dorso, tenendomi stretto a sé, lasciandomi l’uccello dentro fino a che non tornò a riposo. Lo estrasse ancora bagnato e mi fece voltare verso di sé. Rimanemmo distesi e abbracciati a lungo, in un bagno di sudore e sperma mentre i nostri cuori lentamente riprendevano a battere con regolarità.
Sentivo Valentin rilassarsi mentre mi stringevo a lui. Gli abbracci si fecero più serrati e i baci più ardenti ma non andammo oltre le coccole: cominciava a fare buio e l’incantesimo stava per svanire. Io ero ospite a cena (e mi ci sarebbe voluto un po’ di tempo per rendermi presentabile) mentre lui era atteso a casa da moglie e figli.
Ancora una volta ognuno di noi sarebbe stato riassorbito dal vortice della propria quotidianità e chissà quanto tempo avrebbe dovuto trascorrere prima di poterci trovare di nuovo così vicini…
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